Come tanti nell'obitorio il cor­po giaceva pietosamente co­perto da un lenzuolo, sotto la luce impietosa del neon. Non s’era visto ancora nessuno: l'autopsia doveva cominciare di lì a poco, stando alle previsioni del maresciallo Ingarbuglia.
Unico particolare degno di nota: un ciuffo di capelli nerissimi e scomposti che veniva fuori, inaspettatamente, dal lenzuolo. S'udì in lontananza un brusio che divenne vocio e scalpiccio, una volta che l’ampia bussola venne prepotentemente aperta permettendo l’entrata degli addetti.
Il dottor Patti, medico legale da ormai tanti anni del paese di *** cominciò il suo lavoro, coa­diuvato dai suoi assistenti Salemi e Grasso. Il sudore imperlava già la sua ampia fronte spaziosa e calva, scendendo giù fino alle guance grassocce e proseguendo fino al collo della camicia che nascondeva quello che era stato una volta il suo mento. Gli occhi, piccoli e porcini spuntavano come spilli sotto gli occhiali spessi e rotondi. “Che lavoro ingrato!" pensava tra sé e sé girando gli occhi intorno “A quest’ora sarei dovuto partire per la campagna con Rosa e Mariuccia, ed eccomi qua. a squartare questo pupo che ha pensato bene di togliersi dai piedi chissà perché!"
L’espressione pupo lui la usava sempre quando parlava di cadaveri per esorcizzare così lo schi­fo iniziale di quello che doveva fare. “Bisturi!!!"
Una volta iniziata l’operazione la concentrazione del dottor Patti era così totalizzante e la sua mano così ferma e decisa che la sua persona stessa ne risultava trasformata, acquistando il suo fisico tozzo e grassoccio una nobiltà e una dignità insospettabili.
Per quel ciuffo di capelli nerissimi s’era persa Mara, più di dieci anni prima. Aveva dodici anni Mara quando aveva conosciuto Turi. Occhi neri come due olive, pelle ambrata, fisico acerbo e promettente. Una bambina timidissima, ma risoluta. Occhi bassi - quarta di sette tra fratelli e so­relle - che i lavori di casa avevano presto maturata e resa consapevole. Quando tornava da scuola o quando andava a Messa con le sue sorelle c’era sempre lui, Turi, che scorrazzava con la sua rom­bante motoretta sollevando polvere e rimbrotti. I genitori di Mara s’erano dati da fare per saperne di più di questo picciotto dai modi spicci che insidiava la loro bambina. E Turi non godeva certo di buona fama: poca voglia di lavorare, rissoso, cattive compagnie, dubbia reputazione...
Ma quando, uscendo trafelata un giorno da scuola, lui l'aveva fermata regalandole un fiore e, guardandola di traverso, le aveva fatto un sorriso di quelli che entrano per sempre nell’anima; e quando, qualche tempo dopo, l’aveva tirata per un braccio e le si era avvicinato così tanto da farle sentire il suo fiato sulle guance e il cuore le era schizzato prepotentemente in gola, battendo all’impazzata, mentre un tremore sconosciuto le aveva invaso il petto, Mara non aveva capito più nulla.
Anni di musi, di litigi, di porte sbattute in faccia. Anni di pianti soffocati dal cuscino, di occhi rossi e di nasi soffiati in fretta e di cose frettolosamente nascoste.
Non era servito
a nulla.
“Voglio solo lui!” - “Piuttosto mi ammazzo!”
Di fronte a un’ostinazione così caparbia alla fine avevano dovuto cedere anche loro e così Mara a quindici anni e mezzo era già fidanzata con Turi. Non erano stati anni facili nemmeno dopo, quando Mara aveva dovuto capire per forza che tipo era. La spavalderia era diventata arroganza, l’indolen­za colpevole apatia, la superficialità pericolosa connivenza. Le assenze inspiegabili di Turi non si contavano più. Dove era, che cosa faceva, e soprattutto con chi? Queste domande, dapprima senza risposta nella giovane mente di Mara, a poco a poco acquistavano una consistente inquietudine.
Ma non vedi che tipo è, figlia mia!” Le lagrime della madre le ustionavano il cuore.
Qualche volta te lo portano ammazzato, con i piedi a paletta, e qualche squarcio sul petto. Di quelli che non guariscono, però”. Rincarava la dose suo padre che era più concreto.
Entrambi però, erano pronti ad accoglierla a braccia aperte la loro figliola, quando avesse volu­to, perché la loro semplicità contadina non escludeva tenerezza e perdono.
Perché Mara, pochi mesi prima era andata a vivere con Turi.
In un assolato pomeriggio di settembre, quando il sole tarda a morire, Mara aveva raccolto le sue poche cose e s’era ficcata nella sua macchina, mentre qualche gallina e Linda, l’ultima nata, le gironzolavano intorno. Ancora oggi si chiedeva come aveva potuto rinunciare, così semplicemente e con tanta naturalezza, alle cose che le sue coetanee sognavano sfogliando avidamente i fotoromanzi che l’edicolante metteva da parte per loro. Ma poi pensava che era inutile andare a ritroso sulle proprie decisioni che appartengono solo al momento in cui si effettua la scelta.
A lei bastava solo averlo accanto: la notte nel tepore tiepido e rassicurante del letto, la mattina quando, dopo avergli fatto il caffè, si accovacciava sulle sue ginocchia per prenderlo con lui e il profumo si diffondeva in cucina. Per il resto la sua vita era una lunga attesa; quando andava via per cose da uomini, bimba mia! e passavano lunghi giorni prima che facesse ritorno, stravolto e incattivito, col ciuffo nero sempre più spettinato e scomposto e nemmeno le sue carezze potevano calmarlo, nemmeno l’odore penetrante del caffè appena fatto. Ma Mara era paziente e i suoi giorni scorrevano come i grani di un rosario in attesa di una sistemazione, di un lavoro più sicuro. Poi erano cominciati gli interrogatori, le convocazioni, le accuse, gli arresti. Tutto in un turbinio di avvenimenti che ancora oggi Mara non riusciva a ricostruire con chiarezza. Ricordava sì, è vero, gli avvocati, il giudice, i testimoni, il brusio della gente, lo scampanellio che annunciava l’ingresso della Corte. Lui, insieme con altri in una gabbia. Gli occhi sbarrati di sua madre.
Le sue lacrime la notte riempivano il cuscino. I vestiti informi di lui pendevano nell’armadio.
Questa volta Turi l’aveva fatta più grossa delle altre: il coinvolgimento era con un mafioso di calibro medio che teneva le fila di un traffico di scommesse clandestine e di sfruttamento della pro­stituzione. C’era scappato il morto, e Turi era accusato di favoreggiamento, un’accusa pesante che avrebbe potuto fruttargli parecchi anni di carcere. Quando poi tutto fu finito Mara raccoglieva qua e là i cocci della sua esistenza che appariva frantumata per sempre. Aveva accettato l’invito di sua madre di tornare a casa, ma si aggirava come un fantasma tra cose che non le appartenevano più, cercando disperatamente un filo che la riagganciasse ad una realtà che le scivolava di dosso come un vestito smesso da troppo tempo. S’era fatta forse più bella di prima: gli occhi, diventati accesi e febbrili brillavano quasi, ma spesso s’intorbidivano e sfuggivano girando senza fermarsi. La bocca si serrava stringendosi e sulla fronte spesso comparivano due solchi là, proprio in mezzo al naso.
Sembrava che non avesse altro scopo o altro pensiero che andare a trovarlo in carcere, ogni giovedì, che era giorno di ricevimento. Si preparava con cura: il vestito pulito e stirato, i lunghi capelli raccolti in una treccia, un po’ di rossetto sulle labbra. Prendeva la corriera per il paese, Mara, e non dimenticava mai di portare con sé un pacchetto di caffè. Poteva dimenticare qualsiasi altra cosa, ma non quello. Le sembrava di ricostituire così un’armo­nia spezzata, una quotidianità di cui coltivava gelosamente il ricordo: le mattine in cui Turi si at­tardava con lei nella piccola cucina completamente invasa da quel profumo così comune, eppure così unico la rimandavano - sia pure illusoriamente - ed era consapevole di ciò, ad altre normalità più semplicemente vissute e per questo così ingenuamente associate. S’immaginava dunque che in quello spazio cosi angusto di cui non conosceva i contorni né l’esatta dimensione umana, ma che comunque riteneva terribile, Turi avrebbe trovato un po’ di conforto col suo caffè. Lo vedeva così, dopo una lunga attesa e dopo avere sbrigato le formalità necessarie; il volto più affilato, gli occhi gonfi e affossati, la barba lunga di giorni. Si avvicinava come fosse sorpreso di vederla, lei così giovane e tenera in quell’ambiente così duro e sguaiato, ma ciò durava solo un attimo e la maschera di sempre (ironica e sprezzante, arrogante e beffarda) aveva poi il sopravvento, come se temesse di far vedere la sua debolezza di fronte a Mara.
Vedrai che qua non ci marcirò più a lungo bimba mia!” - "Non è ancora nato chi incastra Turi.” E dopo qualche bestemmia appena accennata, a mezza bocca faceva qualche nome, subito, però soffocato e confuso, non appena si rendeva conto che qualche guardia dietro le sue spalle avrebbe potuto sentire. Il colloquio continuava poi su notizie generali riguardanti la famiglia, su notizie riguardanti lei e alla fine, quando il tempo era ormai scaduto, un lampo negli occhi, un sor­riso ironico quando, agguantato il prezioso pacchetto contenente il caffè, lo portava enfaticamente al naso per dimostrare il suo gradimento.
Quando i cancelli s’erano ormai richiusi dietro le sue spalle un brivido percorreva Mara in tutta la sua persona. Cominciava a rendersi conto che esistono realtà molto diverse e tra loro incon­ciliabili: quel velo che aveva ostinatamente voluto tenere sugli occhi, cominciava poco a poco a scostarsi, al di là della sua volontà.
Ogni giovedì. Tutti i sacrosanti giovedì di ogni mese. Mara non lo sapeva perché una forza oscura la spingeva a questo che aveva ormai il sapore di un rituale. Riconosceva ormai ogni scossone e rallentamento che la vecchia corriera, lenta e sussultante compiva ad ogni curva. Lì, a sinistra un cartello indicava il bivio per **, un po’ più discosto a destra il vecchio abbeveratoio ormai semidiroccato segnava inequivocabilmente la fine del rettilineo e l’inizio della salita finale.
Frammenti di vita vissuta s’intersecavano a mozziconi di vita attuale, amari e aspri come una maledizione pronunciata urlando.
Buongiorno signorina, come va?
Il sorriso bonario del bigliettaio la scosse per un attimo dal suo torpore.
Ormai tutti conoscevano quella figuretta sottile e un po’ dimessa, quella lunga treccia nera. E tutti erano gentili e premurosi con lei: anche la guardia carceraria, un giovanotto dall’aria pulita e brufolosa che le accorciava il tempo dell’attesa con battute e barzellette stantie. E tutti la guarda­vano sospirando con un misto di compassione e di rabbia. Mara se ne accorgeva e questo, anziché alleviarla, aumentava la sua disperazione.
Come sei pallida, figlia mia, dovresti distrarti un po’...” - “Potresti andare in città, con tua cugina che deve comprare il vestito per il suo matrimonio...
Ma questi inviti e queste timide aperture la lasciavano indifferente e apatica. Il suo pensiero era sempre là: a quello sguardo fintamente spavaldo, a quel ciuffo nero, che, scostato ripetutamente dagli occhi, reclamava carezze materne e comprensione. Non poteva, non voleva lasciarlo eppure desiderava che non ci fosse più.
Nei momenti di dormiveglia, quando la parte più nascosta emerge dal profondo, Mara per pochi attimi dimenticava tutto e immaginava una vita serena e felice, normale; non sapeva come e con chi: i contorni delle cose sfumavano lentamente per lasciarle solo un senso di benessere vago e vaporoso.
Poi si scuoteva da questo torpore e tutto ricominciava come prima. Era stato così, che, quasi senza accorgersene, il pensiero era affiorato alla superficie ed era emerso allo stato di coscienza. La prima volta non ci aveva fatto caso: ci aveva quasi sorriso; ma poi, col passare del tempo, ritornava così frequentemente che le risultava sempre più difficile disfarsene; infine, negli ultimi tempi, era diventato acuto e sottile come una lama, sempre presente nella parte più buia della sua coscienza. Impronunciabile anche a se stessa.
L’orrore iniziale l’aveva lasciata senza fiato, tanto che aveva dovuto correre davanti allo spec­chio per verificare se era stata proprio lei a formulare un’ipotesi così orribile e che espressione aveva la sua faccia.
Poi si era abituata, come ci si abitua al tormento o alla schiavitù o alla pena dell’esistere.
Quel giovedì se lo sarebbe sempre ricordato. Si guardava intorno con aria sospettosa come se tutti dovessero sapere o vedere qualcosa di strano. Aveva risposto al saluto del giornalaio, aveva azzardato qualche mozzicone di conversazione con il bigliettaio; cosa che non faceva mai, lei che era sempre ad occhi bassi. Aveva perfino finto di interessarsi agli sproloqui di Andrea, il sor­vegliante che ne era così stupito che si poteva leggere un punto interrogativo sulla sua faccia.
Poi il colloquio, come sempre. Il pacchetto, come sempre. I saluti.
Questa volta Turi appariva più febbrile, più scatenato. Gli oc­chi guizzavano qua e là senza sosta; le labbra farfugliavano pa­role che sembravano sfuggirgli incontrollate, per poi tornare alle poche, stereotipate battute di sempre. Aveva un occhio gonfio dovuto a un vivace scambio di opinioni con un compagno di cella.
Sulla strada del ritorno Mara appariva più curva e più stranita del solito. Ma, quando, tornata a casa, salutò appena sua madre e le disse che stava andando a riposare e che non voleva essere disturbata perché si sentiva poco bene, nessuno si preoccupò più di tanto, nemmeno Linda e Giacomo, che continuarono a litigare rincorrendosi per casa.
Mara dormì un giorno intero e una notte.
L’usciere del tribunale, leggermente claudicante a causa di una brutta caduta avvenuta in tenera età, stava portando il vassoio con le tazzine di caffè nella stanza del giudice Mazza. Già pregustava il momento in cui, ne era certo, il giudice avrebbe sicuramente detto “Vuole favorire anche lei?”.
Allora il gradevolissimo odore si sarebbe diffuso nella stanza polverosa piena di incartamenti. E lui avrebbe sorriso, compiaciuto e lusingato, accettando la gentile offerta che per un attimo lo accomunava al magistrato.
Mentre girava pigramente il cucchiaino nella tazza, il dott. Mazza gettò uno sguardo agli incar­tamenti che attendevano di essere esaminati. Erano i risultati delle ultime autopsie effettuate dal dott. Patti.
In quella eseguita sul cadavere di “Caruso Salvatore deceduto in carcere lì 16/07/62” la diagno­si era chiara: morte per avvelenamento.




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