Forse vi chiederete perché sto raccontando questa storia che appare umile e banale come tante, una storia che passa inosservata come un soffio di vento, o come un filo d’erba appiccicato ad una scarpa.
La storia non si svolge qui da noi, ma in un paese molto lontano su cui prima si favoleggiava come qualcosa d’irraggiungibile e che adesso è a portata di volo e di voce.
Me l’ha raccontata un cinese che abita poco lontano da casa mia, un cinese che - come tanti - ha aperto un negozio di cianfrusaglie a basso prezzo dove di tanto in tanto vado a curiosare e dove sono ammonticchiati in ordine sparso maglioni, pantaloni, giubbotti con un drago nero stampato sulla schiena.
Il cinese parla bene l’italiano, nel senso che conosce molti termini della nostra lingua, e se non fosse per quell’andamento cantilenoso e vagamente musicale del suo accento, lo si potrebbe scambiare per uno di noi che è andato all’estero, sempre che si avesse gli occhi bendati o che ci fosse buio pesto nella stanza.
I nomi cinesi sono impronunciabili, così darò dei nomi di fantasia ai personaggi.
Nel villaggio rurale di**, nella Cina del Sud, la vita è molto faticosa: gran parte dell’anno passa sui campi di riso, aspettando le inondazioni periodiche che si susseguono e che consentono la coltivazione e la raccolta delle preziose piantine. La gente vive abbarbicata sulle pendici delle colline. Se ne possono vedere alcune raggruppate un po’ più ad est, sulle sponde del grande Fiume Xi Jiang.
È una famiglia numerosa quella di Chang Li: cinque figli prima di lei e tre sono femmine.
Quando lei è nata nessuno era contento di questo: le figlie femmine sottraggono risorse ai maschi e perciò si sfrutta in ogni modo la loro attività.
“Chang! Dove ti sei cacciata? Vieni qua, subito!”
È la mamma che la chiama. Ci sono tante cose da fare in casa: spazzare i pavimenti, lavare i panni, portare l’acqua e la legna per il fuoco…
Chang si attarda pigramente, ci sono i suoi amici della scuola rurale del paese e vorrebbe continuare a giocare con loro, ma non può farlo, perché se no sono botte e la volta precedente è rimasta a piangere per tutta la sera.
Qualcuno la prende in giro e lei si arrabbia ancora di più, digrignando i suoi dentini e strizzando gli occhi fino a farli diventare due fessure in mezzo alla faccia.
Tra i suoi compagni di scuola ce n’è uno che quando Chang vede le batte forte forte il cuore e vorrebbe tenere per sempre la sua mano nella sua come è accaduto quando giocavano insieme alla morra perché facevano parte della stessa squadra. Adesso spera che l’anno venturo saranno nella stessa classe, magari seduti nello stesso banco…
Il sole sta tramontando laggiù nell’altopiano erboso ed è piacevole attardarsi così, all’aperto, prima che cominci la stagione delle grandi piogge e che la calura renda l’aria irrespirabile.
A Chang piace guardare gli uomini che si ritirano dal duro lavoro dei campi, intenti alla raccolta delle pianticelle che non resisterebbero alla furia dell’acqua. Camminano appaiati a due a due, reggendo gli attrezzi da lavoro e portando sul capo i grandi cappelli a tesa larga, corrosi dal sole e dall’acqua.
Il ragazzino le si avvicina:
“L’ho preso per te sullo stagno vicino al pascolo. Era così bello!”
E le porge un fiore di loto, di un rosa incredibile, rimasto miracolosamente intatto ai primi bruciori dell’estate.
La bocca di Chang si atteggia ad un sorriso aperto e largo. “Sì”, pensa “l’anno prossimo siederemo nei banchi vicini, ed io l’aiuterò nella scrittura, o gli farò i calcoli, vedremo…”
“Grazie, Tin Lao, mi piacciono molto i fiori di loto, ma adesso devo andare a casa. La mamma mi ha già chiamata tre volte, e poi si arrabbia… A domani!”
“A domani, Chang!” e il suo sguardo appare dolce e rassicurante.

La mamma non è sola, a casa. Sta parlando con qualcuno.
“Bene!” pensa Chang Li, “così non si accorgerà del mio ritardo”. E si affretta a completare i suoi lavori domestici.
Il “qualcuno” altri non è che il maestro della scuola rurale, il maestro di Chang Li, appunto.
I due parlano concitatamente, a tratti la madre di Chang alza la voce. La ragazzina riesce a captare alcuni stralci di conversazione:
“Ma è la migliore della classe! Ha i voti più alti nella scrittura e nel calcolo…”
“Non posso più mandarla! C’è tanto lavoro da fare! Guardi le mie mani, la prego! I suoi fratelli l’inverno prossimo devono andare in città a trovare lavoro, ed io come farò da sola? Le figlie femmine devono aiutare la madre, sono nate per questo! No, Chang rimarrà a casa l’anno che viene, non la manderò più…”
Il tono della madre è così supplichevole, ma deciso, che il maestro non sa più come ribattere. La conversazione finisce là.
Messa in un angolino, la scopa in mano, Chang comincia a piangere: grossi lacrimoni le scorrono sulle guance, vanno a cadere sulla casacca un poco logora.
Una bambina col codino nero e la scopa in mano. Una bambina che piange, in Cina perché l’anno prossimo non potrà più andare a scuola, né rivedere quel compagno cui era così affezionata.
Ce ne sono tante in Cina, di bambine così, e sicuramente anche in tante altre parti del mondo, ed io non so proprio perché la sto raccontando, questa storia, che il cinese sotto casa ha sillabato per me nel suo modo ritmico e quasi musicale.
Chiedo il prezzo di quella maglietta, di quella rosa, col disegno di un pupazzetto sul petto, e mi chiedo perché mai costi così poco. Poi mi domando perché ci sono tanti cinesi nella mia città, che vivono in gruppo e poi spariscono senza che se ne sappia più niente.
Ma questa è un’altra storia.



powered by Guido Scuderi
Estratto da “La bambola graffiata