La ragazza si tuffò di colpo, senza pensare più, dopo avere lungamente indugiato sullo scoglio bruno.
    Una sensazione d’immediata freschezza le avvolse il corpo. L’acqua di fine giugno non s’era ancora adeguatamente riscaldata, ma a lei piacevano quei sottili brividi sulla pelle: il mancamento iniziale la spingeva a dare bracciate sempre più veloci, fino a non avvertire più alcun senso di disagio.
    Nuotò un poco, senza spingersi oltre la linea del pontile; poi cominciò a sguazzare ora facendo il morto, ora immergendosi sotto il pelo dell’acqua, ora scrutando il fondale roccioso.
    Si era seduta poi su uno scoglio che affiorava per riprendere fiato: i piedi erano immersi e notò tanti piccoli pesci che sgusciavano qua e là nuotando frettolosamente tra cespugli di alghe che ricoprivano interamente la parte sommersa.
    Sorrise agitando i piedi per scacciarli e respirò a pieni polmoni l’aria tiepida e salmastra che l’investiva.
    Pensò che mai avrebbe potuto fare a meno del mare. Pensò che avrebbe fatto di tutto, negli anni a venire, per trascorrere la sua vacanza all’Isola.
    Si sdraiò in modo che il suo corpo ricoprisse quasi interamente la parte emersa, e, sospirando di piacere, lasciò che il sole l’avvolgesse interamente.
    Quanto era rimasta così, con gli occhi semichiusi a sentire soltanto il rumore di qualche onda che s’infrangeva nella parte bassa dello scoglio?
    Aprì gli occhi e per qualche istante non vide nulla; poi, quando la vista a poco a poco si riabituò, poté distinguere in lontananza la linea dell’orizzonte che si congiungeva perfettamente con la linea del cielo: avevano lo stesso, identico colore.
    Nuotò fino a riva, si scrollò di dosso l’acqua salmastra, si asciugò un poco. Poi si rivestì incurante del costume bagnato. Tornò a casa.
    Trovò la nonna che armeggiava in cucina. Tutte le volte che lei tornava, per l’estate, le preparava una gustosissima caponata. Il profumo la investì piacevolmente. Gli stessi gesti, ripetuti con cura e con amore da sempre.
    Si sciacquò, si rivestì. I capelli, ancora bagnati le davano un senso di frescura.
    La casa, come tante nel paese, aveva un piccolo giardino nella parte posteriore con un grande albero di carrubo che stendeva i suoi rami frondosi per quasi tutto lo spazio disponibile, mentre intorno al perimetro che delimitava il giardino, diversi rampicanti proteggevano il muretto e l’inferriata dagli sguardi indiscreti.
    Controllò se in un angolo ci fossero ancora le erbe aromatiche che aveva piantato l’anno precedente. Il basilico e la menta erano cresciuti, mentre la salvia aveva stentato non poco ad abituarsi all’aria salmastra.
    La casa era stata imbiancata a calce da poco, e le inferriate erano state dipinte di verde.
    La nonna stava apparecchiando fuori, proprio sotto l’albero.
    Mangiarono silenziosamente. Poche parole tra loro, come sempre. Quando la nonna si alzò per fare il caffè, la ragazza notò che i suoi capelli erano ormai tutti bianchi e la schiena un po’ più curva del solito.
    L’ora più calda del pomeriggio la vide bocconi sul letto di ferro battuto dopo avere scostato disordinatamente la coperta di cotone bianco.
    Nel silenzio e nell’oscurità che l’avvolgevano, solo un moscone attirato dalla luce che filtrava da uno spiraglio dell’imposta socchiusa.
    La nonna cuciva quietamente in giardino. La ragazza piombò in un sonno intenso e abbandonato.
    Quando si svegliò il sole cominciava a calare sull’orizzonte e se ne potevano vedere i bagliori rossastri filtrare attraverso i rami dell’albero.
    La nonna era uscita e la ragazza si dispose a quello che era lo scopo principale della sua venuta.      Prese il cavalletto e lo posizionò sotto il piccolo pergolato formato da alcuni rami di glicine intrecciati col gelsomino. Sistemò i pennelli in un vasetto, accomodò i colori su un tavolino e infine portò la sediolina pieghevole all’altezza giusta. Nel punto in cui era poteva vedere chiaramente lo scorcio che intendeva dipingere, proprio perché il muro in quel punto era sbrecciato e si vedeva uno spicchio di mare contornato dalla sagoma delle case vicine.
    Ci avrebbe dipinto una barca, in quel punto. E se la barca non c’era, l’avrebbe inventata lei, quella barca.
    Lavorò di buona lena per tutto il pomeriggio, aggiungendo ancora qualche tocco di colore, poco soddisfatta del risultato finale di questa prima parte del lavoro, poi sciacquò accuratamente i pennelli, li immerse nell’acqua ragia e mise da parte, in un angolo riparato, tutto l’armamentario.
    Si lavò, si cambiò, uscì per fare una passeggiata in paese e per rivedere delle vecchie conoscenze. Non ebbe fortuna e così, dopo aver fatto un giro sul lungomare, pensò di ritornare a casa dove la nonna ormai doveva essere rientrata.
    Parlarono fitto fitto questa volta nonna e nipote, raccontandosi tutto quello che era avvenuto durante l’inverno, poi si sedettero a prendere il fresco in attesa di andare a letto.
    Prima di spegnere la luce la ragazza pensò che le sue giornate sarebbero trascorse così. La mattina a mare anche per scovare qualche angolo nascosto e pittoresco, il pomeriggio a dipingere.
Si sentiva soddisfatta e con questo pensiero in mente, il sonno arrivò quasi subito.
    Uno dei giorni seguenti non scese più dal pontile per fare il bagno, ma si recò in un altro punto dell’insenatura dove c’era una spiaggetta di sabbia fine e bianca. La spiaggia proseguiva sulla sinistra con un costone di roccia arida su cui crescevano degli sterpi bruciati dal sole e dal mare.
    Quello che c’era sulla sinistra non si vedeva, mentre sul lato destro si distingueva il consueto paesaggio con le barche e, più in fondo il molo piccolo. Abbandonò la bicicletta a ridosso di una roccia e proseguì verso il mare calpestando la sabbia. Fu necessario camminare prima che il mare diventasse così profondo da consentirle di nuotare.
    Notò che il mare in quel punto aveva un odore diverso e che anche la temperatura era più calda.
Sicuramente era anche meno limpido per via del fondale sabbioso, e così si spinse più a largo.
Nuotò con la testa sott’acqua per un  lungo tratto, sempre costeggiando la riva e si fermò allora cercando un posto fisso per riposarsi. La scogliera in quel punto era piena di piccole insenature e calette a lei sconosciute: una ragione di più per esplorarle tutte.
    Trovò uno scoglio al limitare di una piccola baia e vi salì sopra, convinta di avere trovato l’approdo giusto.
    Ma in un punto più in basso, non visibile da dove era salita, vide un uomo.
    Il primo impulso fu quello di rimettersi in acqua e fuggire, perché non voleva dividere con nessuno questi momenti di esplorazione solitaria, ma poi qualcosa la trattenne: un misto di curiosità e presentimento.
    L’uomo si presentava di spalle e sembrava intento a pescare assorto e immobile. Aveva una canottiera bianca e dei pantaloncini chiari. La pelle abbronzata e le braccia muscolose. I capelli erano coperti da un cappellino floscio, le gambe incrociate davanti a sé per garantirsi stabilità, la schiena appoggiata alla parete rocciosa, le mani reggevano una lunga canna.
    La ragazza salì silenziosamente, si mise in un punto più alto e si sedette anche lei, per qualche minuto, abbracciandosi con le mani le ginocchia nodose. Notò che i peli delle braccia le erano diventati biondi.
    Nel silenzio quasi incantato, interrotto soltanto dall’infrangersi delle onde, sentì un suono lieve, quasi una nenia lenta e modulata, provenire dalla bocca dell’uomo.
    Sorrise dentro di sé, pensando che in questo modo l’uomo volesse incantare i pesci. Un pifferaio magico del mare. Ciò aumentò la curiosità e allontanò il naturale riserbo. Incurante di turbare la tranquillità della pesca, si tuffò proprio sotto di lui, così da poterlo vedere frontalmente.
    Era giovane, ma di età indefinibile, la pelle molto abbronzata, l’aria nordica, come si poteva dedurre da qualche ciuffo di capelli biondi che sfuggivano dal cappellino.
    Non diede segno di essere sorpreso o infastidito da questa inattesa presenza, si limitò a fare cenno di allontanarsi da lì e accostarsi più verso destra, per non disturbare i pesci. E infatti, inaspettatamente, proprio mentre la ragazza eseguiva la manovra, un pesce, che probabilmente aveva abboccato già prima, guizzò sollevando il suo corpo argenteo tirato dalla canna.
    L’avvenimento, in sé del tutto normale, ebbe il sapore dell’inatteso e la ragazza trovò naturale congratularsi con lo sconosciuto e scambiare qualche parola con lui.
    Come talvolta avviene tra persone di diversa origine ed estrazione che incontrandosi in un contesto del tutto diverso dal consueto, fraternizzano scambiandosi impressioni ed informazioni, così avvenne tra l’uomo e la ragazza.
    Le disse di essere norvegese, venuto nell’Isola per le vacanze e le sue ricerche naturalistiche, essendo un appassionato del mare e di tutto ciò che lo riguardava. Le indicò la direzione in cui aveva affittato una casa di pescatori, parlò di una collezione di conchiglie rarissime che aveva raccolto qua e là nel suo vagabondare da un mare all’altro.
    Alla ragazza piacque il suo modo di parlare e la sua inflessione straniera, la ricerca accurata delle parole. Pensò che dovesse essere una persona molto colta e affabile. Gradì la sua discrezione e il fatto che non le facesse nessuna domanda imbarazzante. Lei disse l’indispensabile, ponendo l’accento sulla sua ricerca di angoli pittoreschi da scoprire ed eventualmente da dipingere.
    Lui la invitò ad una passeggiata in barca in una grotta naturale da poco scoperta in compagnia del pescatore suo amico e di sua moglie. Rimasero d’accordo per i giorni successivi.
    Più tardi, mentre mangiava con molto appetito la zuppa di telline che le aveva preparato, la nonna notò come fosse cambiata la nipote rispetto l’anno precedente. Le sembrava più matura e posata, più incline alla riflessione…
    Il giorno fissato per l’escursione era splendido, come tutti gli altri di quel mese, del resto. Soltanto una lieve brezza increspava il mare azzurrissimo, e rendeva meno afosa la temperatura.
    Si videro al molo piccolo, dove la ragazza aveva lasciato la bicicletta.
    La barca s’inoltrò nella parte dell’Isola a lei sconosciuta. Tra anfratti rocciosi e costoni punteggiati da un’arida vegetazione, si trovarono dinnanzi alla grotta.
    La grotta aveva un’apertura bassa e stretta, tanto che dovettero chinarsi per potere entrare; una volta dentro, però, lo spettacolo era incantevole: il buio era interrotto da alcuni squarci laterali, e, dinanzi agli occhi che si erano abituati all’oscurità, uno specchio d’acqua limpidissima dal colore verde smeraldo intenso. Dalla volta pendevano parecchie stalattiti dalle forme contorte. La ragazza rabbrividì un attimo perché la temperatura era più bassa.
    L’uomo cominciò a parlare, raccontando una leggenda che aveva udito su quei luoghi. Parlò di una ninfa, sfuggita all’assalto di una divinità marina che la insidiava, proprio arrampicandosi su quei pinnacoli di roccia.
    Fece notare il colore rossastro-ferroso di alcuni punti che secondo il mito testimoniavano il fatto di sangue che poi si era consumato una volta che la ninfa era stata agguantata. Parlò dell’origine delle rocce, della loro composizione, della loro età.
    La ragazza ascoltava, riempiendosi gli occhi di quello che poi avrebbe riprodotto sulla tela. Reminiscenze scolastiche affioravano qua e là e mettevano in moto la sua immaginazione.
    Alla fine della mattinata si sentiva appagata e felice. Si salutarono stringendosi la mano, promettendosi nuovi incontri.   
    La ragazza fu impegnata tutti i pomeriggi seguenti con tele, colori, pennelli. La nonna, che l’osservava con discrezione disse che sì, quella era la grotta della ninfa.
    Ora la ragazza lavorava a un ritratto. La luce sul volto era troppo vivida, occorreva smorzarla un po’ed aggiungere delle ombre sotto gli occhi… ecco, così andava bene. Con un sorriso di compiacimento, la ragazza intinse il pennello in un colore più scuro, più vicino al bruno.
    I giorni passavano veloci. In una volata agosto era quasi al termine. Adesso la ragazza aveva fretta di concludere l’ultima fatica.
    Si erano rivisti, con l’uomo, varie altre volte, ma più di sfuggita, senza impegni precisi. Chiacchieravano, sullo scoglio, del più e del meno. Lui aveva parlato di impegni di lavoro che lo chiamavano via.
    Una volta l’aveva invitata a casa sua: una casa piccola, bianca che sorgeva in un punto alto dell’Isola, e da cui si poteva vedere uno scorcio di panorama inedito per lei. All’interno la casa era come se l’aspettava, con molto disordine e un’infinità di conchiglie e stelle marine allineate su un lungo tavolo. Fuori un pergolato rustico con una vite dal tronco contorto e aggrovigliato.
    Tra le altre, mostrò una conchiglia che proveniva dal Libano e col cui mollusco gli antichi Fenici tingevano le stoffe di rosso-porpora. Si chiamava murice.
    Le regalò un’altra conchiglia, un Nautilus dalla forma appuntita, a spirale, dal colore argenteo.
Lei aveva avuto modo di osservare e memorizzare gli occhi dell’uomo: azzurrissimi, con delle punteggiature scure, con le ciglia lunghissime e nere.
    Le giornate cominciavano ad accorciarsi. Qualche temporale aveva rinfrescato l’aria e fatto chiudere gli ombrelloni dello Stabilimento.
    La ragazza preparava ormai la valigia e il pacco con le tele e gli strumenti di lavoro. Una in particolare l’aveva messa da parte, non insieme alle altre. La nonna le diede il pacco di congedo con un bacio lungo, più lungo del solito.
    Non l’accompagnò al vaporetto che partiva alle diciassette.
    L’imbarcadero era pieno di una folla vociante e variopinta. La ragazza si guardò attorno, nella speranza di vederlo.
    Quando la sirena emise l’ultimo suono che annunciava la partenza, fu un po’ delusa che non ci fosse, perché voleva regalargli - e questa era la sorpresa - il suo ritratto messo da parte.
    Sospirò leggermente, guardò per l’ultima volta l’orologio, tastò velocemente la tasca con il foglietto con l’indirizzo. Concentrò l’attenzione sulle manovre di partenza.
    Il vaporetto si mosse.
powered by Guido Scuderi
Estratto da “Corti di carta