La porta batté violentemente. Il campanello suonò a intermittenza una o due volte.
“Matilde!!!”
    Ansando per la corsa, incerta su quale operazione compiere, dapprima socchiuse l’uscio per far capire che aveva sentito e poi aprì la porta d’ingresso che cigolò pesantemente.
    “Ma quante volte devo dirti di portare le chiavi!!”
    La risposta fu uno sberleffo di noia e di insofferenza.
    “Matilde!!! Ma che cosa fai? Vuoi deciderti a venire, sì o no?”
    “Si, mamma, vengo subito…Dario, come al solito, ha dimenticato le chiavi…Ti porto la medicina che s’è fatta già l’ora...”
    La figlia era sotto il suo raggio d’azione e la vecchia s’acquietò, mentre i suoi occhi, sgranati e rotondi, usciti fuori dalle orbite per la malattia, si socchiusero un po’ e la faccia assunse un’espressione soddisfatta.
    A Matilde, che intanto tornava con il bicchiere e la pillola, il suo braccio grassoccio e tremolante indicò la candida catasta poggiata sulla sedia.
    “Prendimi quel cuscino, ho una cosa qua, sul petto” e indicò vagamente tra il collo e più giù, tra le sfatte rotondità.
    “Non posso respirare! Mi manca l’aria…Mettimi quel cuscino, qua, sotto la testa…”
    La voce si faceva sempre più flebile e piagnucolosa.
    Matilde sospirò e si morse mezzo labbro. Accennò un sorriso rassicurante e… “Ma no, mamma, vedrai che ora ti passa, prendi questa caramella, intanto…”
    La vecchia sembrò calmarsi per un po’ e succhiando avidamente la caramella che Matilde le aveva scartato e ficcato nella bocca semichiusa, si accasciò sul cuscino.
    “Zia!!!…la merenda!! Dove sono i wurstel? Ho fame!!!”
    Dario faceva sempre così quando tornava dal turno pomeridiano: affamato come un lupo.
    E Matilde guardò la testaccia sempre arruffata, la consistente peluria sul labbro superiore che tra poco avrebbe richiesto l’intervento di una lametta. I denti non erano proprio dritti, ma suo padre non aveva voluto spendere una lira per l’apparecchio.
    “E che è, una femmina?” ripeteva suo fratello. Di soldi, in effetti, ce n’erano pochi, da quando doveva pagare l’avvocato.
    La cucina? Ma era ancora la sua cucina quella che sembrava investita da un ciclone? Dappertutto piatti, posate la padella con i residui delle uova strapazzate, strofinacci buttati di traverso…
    “Potevi almeno aspettare che ti preparavo, non mi hai dato neanche il tempo...”
    Ma tanto lui non ascoltava neanche, preso com’era dalla sua musica a tutto volume.
    “Fai piano, che svegli la nonna! S’è appena addormentata…”
    Una lotta continua. Un vagare incessante da una stanza all’altra, aggiustando qui e là, l’orecchio sempre teso alla stanza della mamma, pronta a correre, se necessario.
    Quando doveva uscire per fare la spesa Matilde si preparava in fretta, senza neanche specchiarsi. Infilava la giacca, una spazzolata alle scarpe, e via…
    Quella volta Dario l’aveva accompagnata con la pretesa di riempire il carrello delle cose che gli piacevano di più e infatti patatine e ketchup, merendine e kiwi traboccavano da ogni dove, alimentando l’immaginario di un adolescente-tipo.
    Inizialmente non l’aveva notato, anzi non l’aveva visto proprio neanche quando, pagando il conto, s’era frapposto tra lei e il carrello precedente.
    Era alto e abbastanza impostato. Indossava una maglia a righe e dei jeans scoloriti; i capelli erano un po’ lunghi ed incolti, di colore castano chiaro. Gli occhiali da intellettuale.
    A casa s’era abbandonata un attimo sulla poltrona, aveva acceso meccanicamente la televisione, mentre Dario armeggiava con la play-station.
    “Devi fare i compiti, adesso! Basta giocare!”
    Sua mamma parlava al telefono, ma tra poco avrebbe chiamato. C’era da sistemare la spesa e cominciare a preparare la cena, poi ingaggiare una lotta senza quartiere per i compiti, poi sistemare la cucina, poi preparare la mamma per la notte con tutto il corredo di pillole, cuscini, zanzariera, poi…
Matilde ebbe un attimo di panico: si sentì subissata da una mole di incombenze tutte ugualmente necessarie e nessuna improrogabile. Temette di non farcela più.
    E invece ce la faceva: caparbiamente, senza chiedere niente a nessuno. Rispondendo con un sorriso alle sgarberie del nipote, alle intemperanze della mamma, alle mute richieste del fratello.
    Quella volta, invece, l’aveva notato. Sarà perché s’era fermato là, accanto ai surgelati, impedendole di aprire la porta, senza farlo apposta, e Matilde aveva pensato perché non si toglieva di mezzo…Invece aveva notato gli occhi azzurri dietro le lenti e i capelli lievemente brizzolati accanto alle tempie.
    “Sul traghetto, accanto all’autobus, c’è una grossa limousine nera con un autista in livrea di cotone bianco […] C’è ancora il vetro scorrevole tra l’autista e il padrone. Ci sono ancora gli strapuntini. È ancora grande come un salotto.
    Dalla limousine un elegantissimo signore mi guarda. Non è bianco, ma è vestito all’europea, con il completo di tussor chiaro che indossano i banchieri di Saigon. Mi guarda. Io ci sono abituata. Nei paesi coloniali tutti guardano le bianche, anche se sono bimbette di dodici anni…

Lesse queste ultime parole quando il campanello l’avvertiva che qualcosa sul fornello, aveva completato la sua cottura… Cercò e trovò faticosamente una cartolina da mettere in mezzo e corse a spegnere il fuoco…
    “Matildeee!!!! Ma è mai possibile??? È un’ora che ti chiamo!!! Ma cosa stai facendo? C’è Angelina, qui al telefono, che ti vuole parlare! – il tono della sua voce si faceva meno concitato - sai, vogliono venire a farci visita, questo pomeriggio…”
    I parenti sarebbero venuti a trovarli nel pomeriggio e occorreva alla svelta comprare qualcosa da offrire. Quando cercò di mettere in moto per raggiungere il supermercato, la macchina ansimò e ondeggiò ripetutamente, poi si avviò con un’impennata violenta e improvvisa.
    Matilde sfiorò con lo sguardo rassegnato la vernice sbiadita, il fanalino mancante, l’ammaccatura sul lato sinistro…
    Pensò per un attimo, solo per un attimo, alla limousine nera con autista che aspettava, sul traghetto del Mekong, del Mekong, appunto. Le sue labbra s’incresparono in una smorfia.
    “Signorina, scusi, è suo?” Matilde si girò di scatto e lo vide porgerle il pacchetto con aria interrogativa.
    “Ssiii…, dev’essere mio…mi è caduto, non mi sono accorta…Grazie!”
    Aveva il viso leggermente abbronzato e sorrideva, i denti leggermente in fuori. C’era un neo proprio sulla guancia sinistra.
    Mentre faceva la fila per pagare Matilde si guardò con più di un’occhiata distratta allo specchio che era là, proprio dietro le casse.
    Un paio di jeans qualsiasi un po’ a zampa, ma - si sa - lei non ci teneva a queste cose, i capelli giù informi ed opachi, il colorito un po’ spento. Pallida.
    La cassiera dovette ripeterle due volte se aveva 45 centesimi per il resto…
    “Il signore elegante è sceso dalla limousine, fuma una sigaretta inglese, guarda la ragazza con il cappello da uomo e le scarpe d’oro, le si avvicina lentamente. È palesemente intimidito. Non sorride subito, prima le offre una sigaretta. Gli trema la mano […] Le dice che quel cappello le sta bene, benissimo, che è… originale… un cappello da uomo, perché no? Carina com’è, può permettersi tutto.”
Non c’era davvero bisogno di lottare contro il sonno e la stanchezza. Le parole scivolavano, l’avvolgevano. Le penetravano dentro. Così facilmente come se l’avesse vissuta, quella situazione. Matilde chiuse un attimo gli occhi, gli avvenimenti concitati e banali della giornata le ritornarono confusamente e rapidamente alla mente. Si stiracchiò, assumendo una posizione più comoda…
    “Fin dal primo istante si rende conto di averlo in suo potere. Dunque anche altri potrebbero cadere così in suo potere se se ne offrisse l’occasione. […] La ragazza adesso dovrà affrontare quel uomo, il primo, colui che le è comparso davanti sul traghetto.
    È arrivato presto quel giorno, un giovedì
.”
    “Matildeeee!!!!”
    Non le andava proprio di alzarsi per andare a vedere cosa voleva la mamma. Con fatica, al terzo richiamo, si alzò ciabattando.
    Non voleva neanche confessarlo a se stessa; ogni volta che quel pensiero si insinuava, lo scacciava come un insetto noioso a cui non si dà molta importanza. Si guardava di sottecchi, talvolta.
    Allora aggrottava un po’ le sopracciglia come per dirsi che no, non poteva essere vero. Che qualcuno potesse interessarsi a lei.
    Aveva cambiato supermercato, quella volta, dietro le insistenze di Dario che voleva quel prodotto in offerta speciale.
    No, non lo aveva più visto, figurarsi! …
    “Dice che è solo, atrocemente solo con quel suo amore per lei. Anche lei gli dice che è sola. Lui gli dice: mi hai seguita fino a qui come avresti seguito chiunque. Lei gli dice che non può saperlo, che prima d’ora non aveva mai seguito nessuno in una camera. Gli dice di non parlare, di fare come fa di solito con le donne che porta nella sua garçonnière. Lo supplica di fare nello stesso modo.
    Appena un bruciore, un languore, anzi. Era il momento in cui il silenzio è così profondo da diradare ogni grumo di consapevolezza e le parole ti penetrano dentro come aghi, come coltelli.
    “Le toglie il vestito e lo getta lontano, le strappa di dosso le mutandine di cotone bianco e la porta così nuda sul letto. Poi si gira dall’altra parte e piange. E lei, calma, paziente, lo tira verso di sé e comincia a spogliarlo. A occhi chiusi, lentamente. Lui vorrebbe aiutarla. Lei gli chiede di non muoversi. Lasciami. Dice che vuol farlo lei. Lei lo fa. Lo spoglia. Lui si limita a spostarsi un po’ nel letto quando lei glielo chiede, ma appena, delicatamente, come per non svegliarla.”
    E quell’insieme aggrovigliato come una matassa di ferro filato, dura e compatta di sorrisi appena abbozzati e di mille esitazioni e di mille paure, e doveri, e singulti cacciati in dentro, sempre più giù, si frantumò.
    Matilde pianse come non aveva forse mai fatto prima, a singhiozzi pieni e convulsi. Senza ritegno.
Tanto che Dario aprì timidamente la porta: “Zia… cosa??”
    Ma Matilde non rispose.
    Adesso Matilde si guardava a lungo allo specchio, si scrutava attentamente come avesse voluto leggersi dentro. Si sorprendeva a specchiarsi nelle vetrine e a confrontarsi con altre. 
    Era diventata più dura, meno paziente.
    Quando sua madre la chiamava non sempre era disposta a correre subito, ma economizzava le sue forze, cercando di non disperderle in cose inutili.
    Aveva imparato a dire qualche no e si avvaleva di questa capacità con lo stupore di un neofita.
    Ne sapeva qualcosa Dario che aveva capito, non senza aver digrignato i denti irrimediabilmente storti, che non più, che non tutto gli era permesso come prima.
    Adesso sua madre aveva cominciato a guardarla di traverso, con occhi supplicanti quando voleva qualcosa. Del tono lamentoso e imperioso di prima quasi nessuna traccia.
    Ma i doveri di Matilde non erano certo diminuiti. E, come sempre, correva tra una cosa e l’altra cercando di prendere fiato.
    Tutte le volte che andava al supermercato - non voleva ammetterlo neanche a se stessa - Matilde si guardava intorno come cercasse qualcuno. Ma da molto tempo, ormai, di jeans scoloriti nemmeno l’ombra.
    Quel giorno aveva più tempo del solito e si soffermava a guardare etichette e a confrontare prezzi. S’imbatté nel reparto dove, allineati per argomento, c’erano dei libri.
    Un uomo alto le dava le spalle, intento a sfogliare un libro piccolo dalla copertina rigida che Matilde credette di riconoscere.
    Si avvicinò istintivamente, mentre il cuore le andava a mille.
    Lui chiuse il volumetto e lo rimise al suo posto dello scaffale, così che Matilde poté leggerne il titolo: L’amante, di Marguerite Duras.
    Nel girarsi dopo aver compiuto l’operazione, vide che aveva la barba un po’ lunga e un vetro degli occhiali lineato.
    Matilde sorrise.

powered by Guido Scuderi
Estratto da “Corti di carta