Il sapore era più gradevole: bastava mescolarne un poco alla polvere bianca, polvere da sparo, appunto, che il suo gusto aspro e sulfureo ne veniva attenuato.
Il caffè lo aveva trovato in una lattina che gli aveva mostrato Omar in un ripostiglio segreto che solo loro due conoscevano, nel campo di addestramento.
Era buono Omar con lui: l’unico amico con cui potere scambiare gesti d’intesa e piccoli favori.
Ibrahim si stiracchiò e allungò le gambe sottili e nodose sulla stuoia che oramai da sei mesi costituiva…il suo tutto: ripostiglio, giaciglio, armadio, santuario degli affetti più cari.
Il sole era sorto da poco sull’altopiano e ancora tutto taceva nel dormitorio. Alla debole luce del mattino poteva distinguere i corpicini delle due bambine che dormivano accanto a lui: una, la più piccola, stava avvinghiata alla sorellina e una mano stringeva la stoffa della gonna. L’altra, la più grande, teneva poggiata la sua, ridotta a moncherino, sulla spalla della minore, in un gesto di muta protezione.
Il ragazzo uscì, si accovacciò dietro un albero. Quando ebbe finito, decise di fare un giro intorno.
Il suo sguardo andò, senza partecipazione, alle nuvole lunghe e striate che appena appena investite dal sole cominciavano a proiettare la loro ombra sul territorio sottostante, arido e punteggiato qui e là da gruppi di alberi scuri. Il terreno era rossastro, compatto e ondulato. In lontananza si scorgevano delle casupole raggruppate e fumanti. Tra poco questa leggera caligine sarebbe diventata una cappa opprimente e il caldo del mezzogiorno avrebbe accartocciato le foglie degli alberi e bruciato le labbra dei ragazzi, prosciugando definitivamente i loro pensieri.

Poco tempo ancora, una manciata di minuti e sarebbe cominciato l’inferno di ogni giorno: in piedi subito, mangiare niente, prepararsi e cominciare la marcia inesorabile verso gli altri accampamenti, tra sudore e fatica indescrivibili.
Sfiorò per un attimo, con occhi compassionevoli, le due bambine che dormivano ancora, le nuove arrivate.
Le avevano portate, ancora sanguinanti e con gli occhi muti di terrore, appena una settimana prima, dopo il massacro del villaggio……
Soffiò leggermente sulla guancia dell’amico ancora avvoltolato nel sonno del mattino.
“Svegliati, è quasi ora…il Capitano verrà tra poco, dobbiamo prepararci!”
Omar si girò ed ebbe un sussulto immediato: gli occhi sbarrati e lucidi di chi è sempre pronto a qualsiasi evenienza.
Si drizzò subito in piedi.
“Stavo sognando la scuola della missione, i libri, i quaderni, le maestre con le gonne colorate, le bambine in festa”
“Un bel sogno, davvero. Ma non abbiamo tempo. Il Capitano ci picchia se non siamo pronti subito! Vieni con me, mettiamo in salvo il barattolo del caffè, se no ce lo prendono. Vieni, fai in fretta, raccogli le tue cose…”

Nel giro di pochi minuti il padiglione si era trasformato in un alveare ronzante e brulicante di esistenze segnate e dolenti: per lo più bambini dai sette ai tredici, quattordici anni. Alcuni si appoggiavano ai più robusti se impediti nei movimenti, altri trascinavano il passo con imprevedibile perizia.
Negli occhi di tutti la consapevolezza di un destino incombente.

“L’hai trovato?”
“Ce l’ho con me”
“Vieni, andiamo a prenderci le armi!”
Il Capitano era appena arrivato e abbaiava i suoi ordini in  un francese  stentato, misto a vocaboli della parlata locale.
“Forza pidocchiosi, piccoli relitti umani, non vi ho tolto dalla merda per farvi divertire, sapete! Muovete il sedere e prendetevi i vostri giocattolini che è ora di partire! Svegliatevi, su, tiratevi i vostri straccetti, che si parte…”
Ma Ibrahim e Omar avevano già preceduto i compagni più lenti, avevano imbracciato il proprio fucile, arrotolato la propria stuoia legandola alle spalle e cominciavano a trascinare il sacco con le munizioni.
“E voi due che fate ancora lì? State ancora dormendo?... Ma guarda cosa mi tocca vedere? Due stupide sgualdrinelle che pensano di giocare con le bambole!”
Le due bambine, saldamente attaccate l’una all’altra piangevano e tremavano insieme, come due fuscelli investiti da una tempesta mentre il Capitano puntava su di loro la canna del suo fucile per incitarle a far presto.
I due ragazzi osservavano inorriditi. Scene simili ne avevano viste tante in questi mesi, ma non riuscivano ad abituarsi.
“Lo portiamo noi il vostro sacco, non preoccupatevi!”
I due ragazzi aiutarono le bambine a raccogliere il loro misero fagotto.
Salirono sul vecchio camion che li avrebbe portati a destinazione. Gli aiutanti del Capitano, uno alto, europeo e di colorito giallognolo, l’altro tarchiato, col corpo coperto di tatuaggi, chiusero le sponde del rimorchio tra grida e imprecazioni.
Per tutta la durata del tragitto Omar e Ibrahim osservavano ciò che si svolgeva accanto al posto dell’autista e videro che il Capitano parlava incessantemente con la rice-trasmittente, ma non riuscirono a cogliere il contenuto della conversazione, anche a causa del rumore prodotto dal camion sulla strada sterrata e dissestata.
Si guardarono, allora con muti cenni d’intesa. Sicuramente l’uomo stava ricevendo ordini e informazioni. Chissà quale sarebbe stata la prossima destinazione? 

Era cominciata, intanto, una pioggia fitta fitta che aumentava l’afa e rendeva l’aria irrespirabile, come spesso avviene a quella latitudine. Con un sussulto molto forte il camion s’era fermato e le ruote anteriori giravano a vuoto perché impantanate nella fanghiglia.
Furono costretti allora a scendere e a proseguire a piedi, mentre il cielo era diventato del colore dell’inchiostro e il fango viscido rallentava il cammino.
Trascinando i piedi che diventavano ad ogni passo più pesanti, Ibrahim proseguiva appaiato all’amico, stringendo i denti e aggiustando la tracolla del fucile che si era nel frattempo allentata.

Non era passato molto tempo dall’ultimo scontro a fuoco a cui aveva partecipato. Le due etnie in conflitto, gli Hutu e i Tutsi avevano compiuto delle violenze inaudite l’una nei confronti dell’altra. In quell’occasione erano stati rapiti nove ragazzi tra i sette e i tredici anni.
Ibrahim ricordava ancora le grida delle donne, il bagliore sinistro degli spari, il crepitio delle fiamme che divoravano il villaggio.
Aveva rivissuto come attraverso fotogrammi sovraesposti la sua stessa vicenda, che ancora continuava a vivere come un incubo.
Anche lui, infatti era stato rapito in modo analogo. Dei suoi genitori, nessuna notizia. 
Era stato “arruolato” con altri ragazzi della sua età e addestrato dapprima al trasporto delle munizioni, poi, visto che aveva dimostrato di cavarsela bene, gli avevano fatto imbracciare il fucile e gli avevano insegnato ad usarlo.
Adesso aveva diverse mansioni, che andavano dalla consegna di messaggi riservati, alla deposizione di mine, al trasporto di feriti.

Il tragitto, prima di arrivare al campo-base, era stato molto pesante non solo per la pioggia battente, ma anche per il rumore degli spari che echeggiavano in lontananza.
Arrivarono, finalmente, dopo quattro ore di cammino, stremati e liquefatti dalla fatica.
Presero posto nell’alloggio, una tenda situata accanto al corpo centrale dell’edificio. Si gettarono avidamente sul cibo che li attendeva in pentoloni fumanti e che qualche guerrigliero distribuiva in ciotole di legno. Niente più che riso con qualche pezzo di carne stopposa e salata. Ma per fortuna di riso ce n’era in abbondanza, e ciò serviva ad attutire il gusto forte della carne.
“Ce n’è per tutti, non preoccupatevi! Ecco a voi, piccoli cani selvaggi!”
La voce gracchiante del commilitone suonava come un ulteriore insulto, come una frustata sulle orecchie.

Quando ebbero finito di rifocillarsi, ai ragazzi fu concesso un po’ di riposo.
Ibrahim, disteso sulla sua stuoia, guardava il soffitto della tenda con gli occhi sbarrati e febbricitanti.
No, non era stata sempre così la sua vita, che da qualche tempo era un inferno inimmaginabile.
Il suo villaggio d’origine era definito “il gioiello della foresta”, tanto era lindo, pulito e operoso. I colonizzatori avevano lasciato delle tracce tangibili prima di andarsene. Ibrahim e la sua famiglia abitavano in una casetta rurale che, come tutte, aveva un piccolo orto e un recinto per gli animali. Il padre si occupava di essi, la madre badava all’andamento della casa. Il ragazzo per ora studiava nella piccola scuola, ma poi, visto che prometteva bene, sarebbero andati in un villaggio più grosso, o nella città più vicina…chissà. Il futuro appariva carico di promesse.

“Cosa fai, dormi?” Omar si era avvicinato di soppiatto, con aria circospetta.
“No, pensavo…”
“Ho sentito il Capitano parlare con un uomo che è appena arrivato con la jeep. Stanno preparando un attacco, laggiù. C’è un villaggio degli Hutu che resiste disperatamente. Vogliono portarci là domani notte, tentare un attacco di sorpresa. Dicono che possiamo farcela…”
“Merda…” Ormai aveva imparato a parlare come loro, dopo tutti questi mesi di apprendistato.
Ibrahim rimase un po’ in attesa. Un attimo, il tempo di deglutire silenziosamente e di dare corpo ai suoi pensieri. 
“Senti Omar, io non ce la faccio più…Dobbiamo tentare di fuggire. Questa può essere un’occasione buona. Se non lo facciamo ci porteranno fuori, oltre il confine…Tra qualche tempo ci arruoleranno in un esercito regolare.. Cosa facciamo oltre il confine? Io ho ancora la speranza di trovare mio padre vivo..e se non tento ora…”
Omar s’era fatto cupo. Rimuginava tra sè e sè le parole dell’amico.
Poco lontano, nel corpo centrale dell’edificio, i “grandi” dell’esercito stavano cenando allegramente. Si sentivano le loro risate sguaiate e i loro canti. Forse tra poco sarebbero stati tutti ubriachi e avrebbero affogato in un sonno pesante l’attesa di una giornata ancora più pesante.

“Ma sei sicuro di quello che dici?”
Ibrahim si passò la lingua sulle labbra grosse e screpolate.
“E’ tanto che ci penso, sai. E questa potrebbe essere l’occasione buona. Quando c’è un trasferimento i controlli si concentrano sulle operazioni militari e i ragazzi più piccoli hanno paura, perché meno esperti. Potremmo approfittare di un momento di confusione, dell’attraversamento di una zona sguarnita, non so…
Ormai abbiamo una certa esperienza…Potremmo provocare qualche finto incidente con qualcuno dei ragazzi più piccoli, in modo da distogliere la loro attenzione…Hai presente quel bambino senza un occhio, quello che è arrivato un mese fa?
Me lo sono fatto amico con delle razioni supplementari di tapioca. È furbissimo, sa il fatto suo e non vede l’ora di fuggire anche lui. Facciamolo cadere, o litigare con qualcun altro…e poi ce la diamo a gambe!”

Omar ascoltava con grande attenzione e annuiva. Tra sé e sé pensava che l’idea dell’amico non era poi così assurda. Cos’avevano infine da perdere?
Confabularono così per buona parte della notte, perfezionando i dettagli della loro impresa.
Solo verso l’arrivo dell’alba caddero in un sonno pesante, senza sogni, senza memoria.

Si ritrovò a pensare, quando l’indomani ci fu l’adunata per dare ordini e preparare la spedizione, come non ci fosse più niente di umano in quelle marionette impettite che vomitavano il loro livore sui ragazzi.
Come fosse assolutamente necessario non aspettare più, fuggire da quell’inferno di degrado e di miseria.
Sarebbero partiti nottetempo per raggiungere nella mattinata il villaggio dove si svolgevano i combattimenti.
I più grandi, tra cui lui e Omar, avevano il compito di portare le munizioni e posizionare le mine anti-uomo.
Non potevano parlare, né ribellarsi. Qualche attimo prima  un ragazzino, nuovo arrivato, era stato steso a terra solo perché si era messo a piangere e aveva invocato aiuto.

Un gesto d’intesa, tra lui e Omar suggellò il loro patto.
“Dammene un po’, Omar, se no non ce la faccio!”
Il ragazzo aprì, con aria circospetta, il barattolo tanto agognato.
La polvere nera e aromatica emanò l’ultimo odore che era rimasto. Con mani rapide ed esperte fu mescolata ad altra polvere, bianca e corposa. Furono fatti due mucchietti che, avvolti alla meglio in un po’ di carta, furono inseriti nelle tasche.

Annusare e masticare questa miscela li avrebbe aiutati, quando il frastuono degli spari e i bagliori dell’artiglieria avrebbero stordito i loro sensi e fatto del loro cuore un piccolo, miserabile concentrato di terrore.
E poi, chissà. Forse, oltre il filo spinato, c’era la libertà… 





powered by Guido Scuderi
Estratto da “La bambola graffiata