Là, dove gli alberi si diradavano e solo qualcuno lasciava cadere i suoi rami penduli sul terreno ciottoloso, l’acqua si diffondeva intorno come un lenzuolo trasparente e si poteva sentire il gorgoglio del fiume che solo qualche metro prima aveva superato il dislivello del letto con un salto sonoro.
    Un tonfo, dopo un percorso lieve e silenzioso, districandosi tra canneti e qualche ciuffo di cespuglio spinoso.
    Era facile, quando il sole cominciava a rischiarare appena l’aria fredda, sentire tutti i rumori che gli uccelli della foresta emettevano.
    Un pigolio appena accennato che diventava cinguettio e canto aperto e disteso, non appena le cime degli alberi s’infuocavano e i raggi penetravano tra le fronde.
    Ma si era in un aprile freddo che spegneva ogni rumore, rendendo l’aria ovattata e penetrante.
    Proprio là, dove una curva più accentuata s’avvicinava maggiormente al tracciato della strada bordato di cespugli ed arbusti nodosi, sorgeva la capanna.
    L’uomo vi abitava da sempre; da quando aveva deciso con irrevocabile determinazione di lasciarsi alle spalle tutto ciò che in passato aveva costituito il filo della sua esistenza.
    E nessuno sapeva nulla di lui, né lui avrebbe rivelato ad alcuno le pieghe nascoste della sua vita.
    Impediti dall’intralcio dei pesanti scarponi, ma rincuorati da un promettente chiarore di cui ormai si potevano vedere le striature luminose sul terreno, tre ragazzi ed un cane percorrevano pigramente il sentiero che costeggiava il fiume.
    “Qui, Flick, qui subito!” Il cane si era allontanato per andare ad annusare e a zampettare vicino all’argine. Il ragazzo più grande fischiò per richiamare l’attenzione dell’animale.
    Si guardarono, ridendo, con un gesto d’intesa.
    Ormai il sole era alto e avrebbero potuto dedicarsi al loro sport preferito, almeno al momento: cacciare ranocchi e raccogliere i girini che nuotavano nell’acqua bassa.
    In quel punto i ciottoli diventavano più grandi e consentivano una certa stabilità. Abbandonarono gli zaini e si sedettero sulle pietre più grosse. Ce n’erano due o tre che offrivano un sufficiente appoggio.
    “Fammi vedere!” Il ragazzo con un ciuffo di capelli bruni che gli spiovevano sulla fronte tirò fuori della tasca un mazzetto di figurine che immediatamente gli altri due si contesero, cercando di accaparrarsene la maggior parte.
    “Zitti, mocciosi! Ma che, non ne avete visti mai, calciatori?”
    Il litigio tra i due più piccoli si era fatto troppo vivace, il ragazzo ebbe un moto di stizza.
    “Basta, non vi porto più con me!”
    Il sole ormai non era più quel batuffolo anemico di qualche giorno prima. Il suo disco era netto nel cielo, ben delineato e cominciava a scaldare.
    “Se continua così, ne avremo poco di freddo, ancora. Potremo caliarci la scuola tante altre volte di nuovo” pensò il ragazzo col ciuffo che nel frattempo scrutava con insistenza l’acqua smossa dai suoi scarponi.
    Lì, in fondo, si cominciavano a vedere delle piccole forme nere, quasi delle virgole vivacissime, che nuotavano dove l’acqua era più trasparente.
    “Se ci sono i girini, ci saranno anche le ranocchie…” pensò ancora, fra sé e gli comparve una ruga, là, proprio in mezzo alla fronte, dove i capelli finivano il loro percorso sinuoso.
    I due più piccoli si erano alzati, si rincorrevano agitando le braccia ed emettendo dei versi sgraziati con la bocca. Uno di loro, quello biondino, più gracile, ma pestifero, aveva cominciato a gettare i ciottoli facendoli rimbalzare sugli altri, ridendo di soddisfazione ogni volta che gli spruzzi d’acqua si sollevavano polverizzandosi nell’aria. L’altro, più alto e tarchiato, con una vocetta stridula e dei ricci neri e folti, lanciava quello che aveva in mano nella speranza che il cane lo raccogliesse.
    Ma Flick era così intento a raspare nel terreno e ad annusare chissà quale pista misteriosa, che nemmeno gli dava retta.
    Si fece l’ora della merenda: avevano fame e uscirono dagli zaini i panini imbottiti. Con lo stomaco pieno intonarono canzoni che conoscevano, che potevano cantare in tre senza che nessuno rimanesse troppo indietro. Il cane intanto a tratti si allontanava prendendo la rincorsa o infrattandosi tra i rami più fitti: forse inseguiva qualche coniglio, o qualche incauta lucertola aveva attirato la sua attenzione…
    Due o tre ranocchie dalla pelle verdastra sguazzavano adesso nella busta trasparente che il biondino aveva raccattato dallo zaino.
    “Adesso sì, che posso continuare i miei esperimenti sulla galvanizzazione!”
    E le mostrava ai due amici con aria trionfante.
    “Zitto, scemo, non sai neanche che cosa significa!”
    Frattanto s’era alzato un vento fastidioso che squassava le cime degli alberi, sollevando un pulviscolo che entrava negli occhi.
    Pensarono che forse era giunto il momento di ritirarsi, s’ incamminarono costeggiando il corso d’acqua per raggiungere il sentiero che li avrebbe riportati su per la strada.
    Stava lì, accovacciato su uno spuntone di roccia, intento ad intrecciare delle corde.
    I tre ragazzi si fermarono un po’ interdetti, incerti sul da farsi e timorosi della reazione che il personaggio avrebbe potuto avere.
    Anche Flick s’era arrestato e guardava il suo padrone con aria interrogativa, il muso proteso e la lingua ciondolante.
    Poteva avere cinquanta, o sessant’anni, a giudicare dai capelli bianchi che si vedevano, dalla barba lunga e fluente che gli incorniciava il volto scarno.
    I suoi abiti erano semplici e informali. Sulla testa un cappellino dalla foggia giovanile, con la visiera che gli nascondeva parte del volto, di un colore arancione troppo squillante per la sua età, e da cui fuoriusciva qualche ciocca di capelli.
    Il lungo, che mostrava sempre una notevole presenza di spirito, lo salutò con disinvoltura, chiedendo qualche notizia sulla via più breve da seguire.
    L’uomo non si mostrò avaro di parole e diede le spiegazioni richieste, poi si alzò dalla strana posizione, inarcò la schiena, chiese informazioni più dettagliate sulla loro presenza in quel luogo.
    Sembrava che non aspettasse altro, quasi si fossero dati un appuntamento.
    Il biondino e il riccio ascoltavano senza interrompere il dialogo.
    “Cercavamo ranocchie, che in questa stagione si riproducono. Volevamo prendere i girini, respirare un po’ d’aria buona. È così bello il fiume adesso, che s’è sciolta la neve e l’acqua viene giù dalla montagna più forte…”
    “E il cane come si chiama? È un bel cane, sai? Ne avevo anch’io uno, ma è morto, forse me l’hanno avvelenato…”
    Rise forte, alla confessione che avevano saltato la scuola per fare quella passeggiata fuori paese.      Forse l’inaspettato incontro l’aveva messo di buon umore, tanto che trovò naturale farli venire nella sua capanna che distava a pochi passi da lì.
    Lo seguirono, ansiosi e ardimentosi, come si può essere di solito a quell’età. Il cane gli veniva dietro, scodinzolando docile. Fu per lui il primo pensiero dell’uomo: una pallina di pezza che Flick si precipitò subito a raccogliere non appena gli fu lanciata.
    La capanna non era altro che una casupola di mattoni a secco. Dentro un unico ambiente sovraccarico di oggetti e cianfrusaglie di ogni genere. In fondo un focolare tutto annerito dal fumo, con la cenere ancora calda.
    “Ho appena fatto colazione, ma c’è ancora del caffè, ne volete un poco?”
    Rifiutarono, perché era quasi ora di pranzo.
    Cominciò quindi a parlare, a descrivere le sue attività, a mostrare i suoi attrezzi di lavoro.
    Gli occhi sgranati, i visi attenti e protesi verso di lui. Solo il Lungo sembrava a suo agio. Flick gli si era accoccolato al fianco e si faceva accarezzare, languidamente.
    “Tra un po’ passeranno i pesci, in un punto più alto del fiume, ed io andrò a pescarli, sto preparando le esche. Volete vedere come si fa?”
    E mostrò le canne rudimentali, i retini, le ceste.
    Le ceste me le fabbrico io, sapete? Ci sono certi giunchi robusti che crescono in una radura poco distante da qui. Ho trovato anche dei papiri molto grossi. Peccato ce ne siano pochi, ma sono sufficienti per fabbricare la carta come facevano gli Egizi. Mi sono costruito anche un piccolo torchio, lo volete vedere? Eccolo qua. E sollevò una catasta di pezze da cui uscì un attrezzo scuro, rudimentale e polveroso.
    Poi cominciò a spiegare come fabbricavano la carta, lo stesso procedimento di cui lui si serviva…
    “È tardi, dobbiamo andare, a casa ci aspettano” tagliò corto il Lungo “Ma torneremo, vero?”
    “Quando volete! Mi trovate sempre qua!”
    Ormai le giornate si facevano sempre più calde, la voglia di respirare l’aria aperta sempre più acuta.    Non si poteva più guardare il sole, se non di riflesso, attraverso le ombre che proiettava sul terreno.
    Il lungo aveva pensato di andarci solo, dal vecchio, senza i due mocciosi che davano noia.
    Era domenica, questa volta. Aveva tutta la giornata per sé.
    Lo trovò che stava preparando gli attrezzi per la pesca. Non si stupì affatto di vederlo, anzi lo invitò a venire con lui, così dopo avrebbero mangiato insieme.
    “Qua, Flick, per di qua!” Il cane mugolava, ma lo seguì ugualmente, scappando a tratti per poi tornare dal suo padrone. Sembrava avesse voglia di farsi accarezzare.
    S’inerpicarono per una salita che conduceva verso la sorgente. Il ragazzo non c’era mai stato: gli piaceva scoprire posti nuovi e raccontarlo agli amici, quelli del paese, dov’era stato.
    L’uomo procedeva taciturno, di umore del tutto diverso a quello della prima volta; sembrava che stesse meditando su qualcosa che faticava ad esprimere.
    Ne aveva parlato in paese, anche col parroco, ma nessuno sapeva nulla di lui. “E’ una brava persona che non dà fastidio a nessuno!”
    “Pacifico, rispetta tutti. Preferisce essere lasciato da solo. Che male fa?”
    Solo il barista si era lasciato andare a qualche confidenza in più, ma chissà quanto veritiera. “Pare che sia venuto durante la guerra…Forse un ebreo, scampato alle persecuzioni, o un disertore, chissà…”
    Il mistero s’infittiva “Qualcuno sostiene che fosse un uomo di nobili origini, divenuto povero per un rovescio di fortuna, e poi mai più tornato alla vita normale. Una specie di eremita, insomma, amante della natura e della vita solitaria e meditativa. Un uomo coltissimo e un po’ tocco che aveva deciso così di trascorrere i suoi ultimi anni…”
    Il lungo ansimava un po’, sorpreso dal fatto che l’uomo, nonostante la sua età, fosse così sciolto.   Avevano passato un cammino così fitto di alberi e di cespugli, che non si vedeva più il fiume, ma solo si poteva sentire il gorgoglio dell’acqua scrosciante.
    Adesso si trovavano nella radura, nel posto prescelto per la pesca.
    Il ragazzo ebbe un moto di sorpresa a vedere un paesaggio del tutto diverso dal precedente, ma così particolare da mozzare quasi il respiro.
    S’era nel punto in cui il fiume faceva come una strozzatura, dopo essere cascato tra due pareti di roccia lavica profondamente incise da una serie di linee parallele che creavano delle strutture fasciformi e continue, sfalsate al loro interno in diversi piani, come le quinte di un palcoscenico.
    In basso della cascata, l’acqua stagnava dopo essere precipitata da un ragguardevole dislivello.
    “È qui che ci dobbiamo fermare” e indicò uno spuntone di roccia “Se c’è qualche luccio lo troveremo qui, dove l’acqua si ferma. E se saremo fortunati potremo anche farne una bella scorpacciata. Se no, ripiegheremo su qualche anguilla. Ce ne sono sempre in abbondanza”.
    S’era accomodato intanto sulla pietra, sciorinando tutto il suo corredo artigianale di pescatore incallito: “Questi sono gli ami, ma ora preferisco gli uncini più grossi, ché potrebbe capitare qualcosa di grosso… o se no tu puoi provare con questa canna più piccola. Se avessimo gli stivali potremmo andare a guado e tentare col retino, ma dobbiamo accontentarci di fare la posta, così, va bene?
    E lo guardava, con gli occhi socchiusi, come se fosse assorto nella contemplazione di qualcosa che solo lui vedeva.
    Il lungo lo ascoltava quasi soggiogato e sembrava assorbire tutto quello che il vecchio gli insegnava: mai nessuno gli aveva dedicato così tanto tempo, né suo padre che aveva sempre premura e sapeva dargli solo scappellotti sulla nuca, né sua madre che non gli spiegava mai niente, ma pretendeva di essere ubbidita. Subito.
    Le sue mani tremarono, la sua voce diventò roca e profonda, gli occhi erano quasi una fessura: “Un tempo avevo quasi la tua età e vivevo lontano, molto lontano da qui. La pesca rappresentava tutto per me. Me l’aveva insegnata mio padre e prima ancora a lui mio nonno. Si viveva bene, allora, ed io sognavo di andarmene lontano, coi pescherecci che solcano l’Atlantico e tornano pieni di merluzzi.
    Partii diverse volte, toccando i porti più disparati del mondo, a contatto con genti di ogni tipo. Eppure, vedi, da ognuno ho imparato qualcosa che ancora metto in pratica…”
    Il lungo intanto si toccava i capelli, si passava la lingua sulle labbra come volesse bere ogni parola.
Ho imparato che l’unica fede è non avere una fede troppo forte, che l’unica credenza è credere solo in se stessi, e questo ci può salvare. Ho imparato che l’odio distrugge l’uomo e lo rende un fantoccio in balia degli istinti più brutali, ma anche che l’autodifesa a volte vale di più di un amore incondizionato.     È lì che ho perso tutto, proprio quando ero arrivato dove mai avrei creduto…Mi ha perduto la mia incoscienza, l’eccessiva fiducia nelle mie capacità, l’incomprensione di chi mi era vicino e avrebbe dovuto aiutarmi. Mi sono rifugiato qui, dopo avere a lungo vagato, dopo avere barattato definitivamente la sicurezza e gli agi con la libertà…”
    Le ultime parole furono pronunciate così piano che a stento il ragazzo le sentì. Avrebbe voluto altri particolari, avrebbe voluto il dispiegarsi di avvenimenti che giustificassero quelle affermazioni così categoriche, ma il vecchio s’era chiuso in un mutismo orgoglioso, e il ragazzo non aveva osato chiedere più niente.
    La pesca procedeva, intanto, e i due erano impegnati nelle varie operazioni relative. Alla fine il cesto era discretamente pieno. Si poteva tornare alla capanna.
    Nella strada di ritorno il lungo notò com’era curvo il vecchio: sembrava che avesse abbandonato la precedente baldanza e si faceva strada faticosamente tra pietre e sassi.
    Non parlarono quasi d’altro: lui lo guidò ad accendere il fuoco, arrostirono il pesce e lo mangiarono avidamente, talvolta con le mani, evitando quasi di guardarsi.
    Il ragazzo si accomiatò a malincuore, chiedendosi se non avesse fatto per caso qualcosa di male, o detto qualcosa di troppo…
    Al lungo veniva un solco lì, in mezzo alla fronte, quando ci pensava. Adagiato nella vita di paese che scorreva lenta e tranquilla come quando il fiume scorre in pianura, tra corse e chiacchiere, tra amenità ed affetti semplici, in realtà non aveva mai pensato a come avrebbe potuto essere il suo futuro.
    Adesso invece pensava al vecchio e a come era stata avventurosa la sua vita, in mari sconosciuti e tra genti cui non si poteva leggere niente di familiare negli occhi o sulle labbra.
    E allora la tranquillità spensierata di cui aveva sempre goduto fino a quel momento, cedeva il posto ad un’ansia ancora più forte perché rivolta verso un oggetto dai contorni niente affatto definiti.
    Avrebbe voluto sapere di più di quell’esistenza, conoscere e vivere momento per momento quelle esperienze che dovevano sembrargli esaltanti proprio perché ignote.
    Era sempre stato un ragazzo abbastanza tranquillo, ma adesso la sensazione di aver perduto il proprio tempo in cose futili e insignificanti e, ancor di più, la percezione che così sarebbe stato per sempre, gli graffiavano l’anima con mille impulsi contrastanti, in un andirivieni di motivi e sensazioni mai provate prima.
    Si guardava le mani e non sapeva se tra qualche anno sarebbero state scure e nodose come quelle di suo padre. Si scrutava allo specchio chiedendosi cosa avrebbe guardato con quegli occhi obliqui, che finora s’erano accesi solo per innocue barzellette raccontate tra un sorso e l’altro, nel bar della piazza. Il fiume, adesso, non si sentiva quasi più. Solo un mormorio discreto e sommesso in quel tratto pianeggiante, in un momento finale del tramonto che diffondeva striature rosseggianti.
    Flick, che era andato avanti, in una corsa gioiosa, ritornava mugolando piano. Lo trovò sul tavolo, con la testa reclinata ed appoggiata sulle braccia. Sembrava che dormisse.


powered by Guido Scuderi
Estratto da “Corti di carta