COMMENTI DEI LETTORI:

Rosy Gras
: (…) ho gustato con piacere il suo lavoro, centellinandolo in ogni sua parte. Apprezzo la sua originale struttura ad incastro e tutti gli ambienti così creati, al confine tra il passato e il presente, l'inconscio ed il conscio, la realtà artistica e quella ordinaria... Apprezzo molto la sua scrittura accogliente, morbida, chiarissima. Spero di leggere altri suoi scritti e.… ancora complimenti!

Anna Maria Grassi
: (…) mi ha colpito la tua bravura e perizia nel descrivere due tempi e luoghi tanto diversi come la Milano dei giorni nostri e la Parigi di inizio Novecento. Poi ho apprezzato il senso di magico (anche se magico non è la parola giusta) che aleggia in tutto il romanzo. (…)  Complimenti davvero, e a presto.
Il Book Trailer
Recensione de "L'Urlo"
Un pittore: (Edward Hopper) enigmatico e scontroso, misterioso e comunicativo della sua stessa incomunicabilità, annoda temporaneamente le esistenze dei due protagonisti, così strettamente che i suoi quadri diventano parte integrante della loro vita e della stessa vicenda raccontata. La quale presenta sfumature rosa, com’è ovvio pensare, che si tingono di giallo per poi trascolorare in un più rassicurante grigiore, volendo insistere con la metafora pittorica.
Una sfavillante Parigi inizio secolo fa da sfondo, insieme ad altre città italiane: Milano, prima, e poi Roma, intenti, i protagonisti, ad inseguire le mostre del nostro autore. “A ritroso” è un pretesto per guardare dentro se stessi, per scoprire nelle pieghe più riposte della nostra esistenza quello che in noi è arte o si fa arte.
Il testo è arricchito dalle illustrazioni di Rossella Granata.
visita
Presentazione del libro alla scuola "Pizzigoni"
Documentario su Hopper
Miette Mineo si avvicina con discrezione al complesso mondo dell’arte per il suo romanzo “A ritroso” sfiorandone alcune problematiche centrali. Attraverso una storia che è dentro e dietro una storia crea un possibile scenario nel quale si svolgono azioni ma, soprattutto si dipanano pensieri e riflessioni sulla vita e sull’arte. E domande.
Oggetto della sua  indagine, che diventa in un certo senso anche teatro degli avvenimenti in una concatenazione inedita, è l’opera (alcune opere, in particolare ) di Edward Hopper famoso artista americano vissuto tra il 1882 e il 1967 che è stato definito il Vermeer del XX secolo o ‘il testimone silenzioso’ (Times 1956)  per aver rappresentato, tra l’altro, interni nei quali sembra dover succedere un qualcosa che in realtà rimane sospeso e che ha anche ispirato grandi registi cinematografici (Ridley Scott, Robert Altman, Dario Argento, David Lynch, Francis Ford Coppola). Wim Wenders ha dichiarato che alcune scene del suo Paris, Texas ‘potrebbero essere state dipinte da Hopper.’).
Attraverso l’incontro di due addetti ai lavori, Edoardo Benfatto e Denise Roberti, entrambi critici d’arte chiamati a recensire la stessa mostra di Hopper, ella si crea un punto di vista privilegiato per entrare nelle opere di un autore che indubbiamente conosce ed apprezza, senza cadere nella trappola del dogmatismo presente, purtroppo, nel campo di una critica più o meno illuminata.

I suoi personaggi guardano, con attenzione ostinata e paziente fuori dalla scena, oltre le finestre…la scena della natura, la scena della società, la scena della vita. Cosa stanno aspettando, pazienti e in verità poco ansiosi?

si chiede Edo che sapeva quante insidie si nascondono nel mondo dell’arte e che entrerà nel vissuto di Hopper in maniera del tutto inaspettata e coinvolgente anche a livello personale.
In un gioco di rimandi Miette Mineo utilizza per la sua storia un meccanismo di proiezione che le consente - a rebours, appunto –  di ricostruire il clima della Parigi artistica dei primi anni del secolo per descriverne, attraverso piccole e puntuali sfumature, gli ambienti, la moda e alcuni dei protagonisti.
La giovane Pauline si trovava da due mesi nella

frizzante Parigi scuola del mondo, vivace e cosmopolita al punto da esasperare l’istinto di emergere, molti artisti avevano trovato terreno ideale per sviluppare al meglio le proprie capacità espressive…  non pensava certo di mettersi in competizione con loro voleva soltanto respirare quest’aria carica di suggestioni, assorbirne il meglio, portare a casa l’esperienza fatta per poi tentare di aprire là una scuola di pittura. (….)attraversò la rue Andrè Antoine per salire verso Montmartre … Alphonse Daudet aveva ambientato in una di quella case il personaggio di Sapho (…)

e confrontandosi con l’atmosfera di quegli anni (se questo è l’inizio me ne vado di corsa) si chiede:

Era arte questa? Era necessario ricorrere a queste manifestazioni così esteriori per esprimere quello che si sente dentro? Non avrebbe saputo rispondere.


Miette Mineo ricostruisce con attenzione, descrive, ipotizza e con intelligenza esprime (semplicemente anche se la sua scrittura è colta e documentata) una sua opinione raccontando i pensieri che il suo sguardo attento genera. Ma non esprime giudizi.
Sceglie come riferimento per il suo romanzo le opere di Hopper (artista con il quale avverte forse una sintonia comunicativa) proprio come Hopper aveva scelto, come medium espressivo del suo pensiero, uno stile narrativo che sembra di facile ed immediata comprensione tranne a voler sollecitare associazioni in campo psicoterapeutico. Ma non è questo l’aspetto che desidero prendere in considerazione non solo perché priva di competenze specifiche ma soprattutto perché non è questo che fa di Hopper un grande artista.
Dichiaro e rivendico il mio ruolo di storico dell’arte per affermare che nessuno stile è una categoria di valore dal momento che esso è un concetto indipendente e non ha alcuna analogia con la qualità estetica: la statura personale di un artista e il valore delle sue opere non costituiscono certamente un problema stilistico.
Edward Hopper, peraltro come ognuno di noi, non ha scelto il momento del suo accesso alla storia ma ha vissuto interagendo con le peculiarità del suo momento storico e con le quali avrebbe potuto trovarsi più o meno in sintonia. Viaggiando molto anche in Europa ha potuto confrontarsi con tutto ciò che l’arte e gli artisti di quegli anni sperimentavano per formarsi, confermare e approfondire le sue scelte cercando di riempire del suo senso specifico e personale l’idea generale di arte. Né più né meno.
Nell’arte di un passato più remoto la sintonia tra il dato tecnico e il dato creativo era quasi sempre assoluta (o almeno così appare oggi) nel novecento abbiamo assistito - tra l’altro - ad un alternarsi dell’elemento tecnico (quando l’arte ha privilegiato l’impalcatura materiale, cioè la forma) o l’elemento creativo (quando l’arte, riflettendo su se stessa ha privilegiato il contenuto).
Hopper compie il suo primo viaggio in Europa nel 1906 e visita Parigi, Londra Amsterdam, Berlino e Bruxelles: ha già un suo bagaglio culturale, visivo, ideale e pittorico più o meno chiarificato e/o espresso che lo spingerà verso gli artisti con i quali intuisce un sentire comune. Non tanto gli artisti delle avanguardie che - legittimamente - sentivano il bisogno di avviare una ricerca che avrebbe portato, nel corso del secolo, a quelle forme di arte concettuale che, pensata solo come cosa mentale avrebbe giudicato inessenziale qualsiasi tipo di esternazione materiale, ma gli artisti che concentravano o che avevano concentrato la loro ricerca sulla luce (Rembrandt, Degas, Manet, Pissarro, Sisley) o su una pittura più intimistica. È interessante notare che pur avendo partecipato nel 1913 all’Armory show di New York (International Exibition of Modern Art) che rappresenta l’ingresso sconvolgente dell’arte contemporanea in una America ancora del tutto ignara dell’arte molto avanzata che si andava svolgendo in Europa, le scelte di Hopper non saranno orientate ad una sperimentazione aggressiva. 
Quando Miette Mineo scrive che

… anche se l’artista raggiunge nelle sue opere risultati di consistente valore, forse al di là delle sue reali intenzioni, non è detto che debba, per questo consultare l’iperuranio o fare ricorso ai massimi sistemi, per imprimere ad esse il sigillo dell’eternità (…)

centra una piccola verità che dà, a chi voglia avvicinarsi al sistema dell’arte, una possibilità di incontro reale, di un incontro di sguardi tra il pensiero di un uomo (l’artista) che cerca una forma
per un suo pensiero che urge dentro e il pensiero di chi guarda e vuole/spera/cerca di comprendere.
Ella solleva la questione della fruizione dell’arte che è cosa complessa e punto focale nella dinamica (a volte incomprensibile ai più ma non per questo illegittima) struttura del sistema dell’arte necessariamente problematica. Alle domande del pubblico (l’artista deve produrre una rappresentazione persuasiva? Deve soddisfare il nostro bisogno di capire ciò che vuole dire? Perché si permette di non confermare le nostre attese?) sembrano opporsi o sovrapporsi violentemente a volte, domande/offerte del mercato, fatte di intellettualizzazioni, sperimentazioni, nuove e vecchie classicità.  Probabilmente, come la giovane Pauline e a distanza di un secolo, il pubblico che ha nostalgia di quelle che sembrano capacità quasi sovrumane ed esercitano un indiscutibile carisma che difficilmente si è disposti ad attribuire ad artisti contemporanei, si chiede: - è arte questa?
Indagare il versante della fruizione dell’arte è complicato anche perché su di essa incombe sempre quell’interrogativo tanto perentorio e implacabile nella sua necessità di definire e di delimitare da richiamare il ti estì di Socrate: Che cos’è? Che cosa significa?
Non è questione da poco e non si può risolvere né addebitando semplicemente la colpa al disimpegno mentale dello spettatore, né pretendendo dall’artista quella presunta chiarezza dei capolavori del passato, ai quali ci si avvicina con timore reverenziale e che, solo per questo, sembrano garantire eccellenza e immortalità.  
Ma è questo il senso nell’arte o, forse meglio, il senso dell’arte?
È complessa l’esperienza di costituire opere d’arte e la scelta del medium espressivo è dettata da quella che Kandiskji definiva necessità interiore.
Anche quando sembra cercare una   necessità di riscontro con il reale in verità Hopper che, come ogni artista di ogni tempo, vive nel mondo e del mondo, ricerca un rapporto più profondo con se stesso e con la vita. Non ha messaggi da dare ma vuole raccontare i suoi momenti di tristezza, di gioia, di speranza; i suoi pensieri colti, passionali o freddi, razionali o immaginari cercando - per ciò - una forma.  Quella forma. La sua.
Nel corso del ‘900 esiti formali diversi hanno espresso necessità, fantasie ed energie individuali diverse perché espressione di artisti/uomini diversi. La tecnica artistica non va intesa soltanto come una sorta di sintassi normativa che suggerisce regole giuste o sbagliate ma è una prassi che diviene insieme all’opera determinando di volta in volta la scelta del medium espressivo con cui l’artista entra in sintonia.
Miette Mineo da scrittrice sensibile e colta si avvicina con rispetto e discrezione all’arte.   Come ogni interprete o, in senso più generico come ogni lettore dell’arte e della cultura ha una sua storia personale ricca di esperienze e con questa guarda il mondo e, nello specifico, l’opera di un artista che, da una propria irriducibile angolazione, ha affidato ai suoi dipinti (soltanto all’apparenza più facilmente comprensibili rispetto alle opere di Picasso, Duchamp o di Giotto) il suo senso di vita e/o di morte, le sue comunicazioni metaforiche o simboliche.
A me sembra quasi che - inconsapevolmente e a distanza - ella obbedisca ad un invito esplicito ed autorevole di Matisse: non si tratta che di canalizzare lo spirito dello spettatore in modo che egli si appoggi sul quadro ma possa pensare a tutt’altra cosa che all’oggetto particolare che noi abbiamo voluto dipingere.

Matisse   incoraggia chiaramente una ermeneutica dell’arte esente, potenzialmente, da qualunque limite. Come dire che, più definire o delimitare, sollecita un comprendere che è essenzialmente un fra-intendere.
Ecco: senza mancare di rispetto all’autore per una presunta - e ahimè sbandierata da molti - soggettività dell’arte, Miette Mineo sperimenta un modo della fruizione: attingendo a piene mani a quello che si potrebbe definire l’ambito inespresso di ricordi e di attese che sono celate nel corpo e nell’anima di ognuno di noi, va oltre la lettera e, così facendo, offre una apertura di scenari possibili. 
Cioè fra-intende. 
Catania, settembre 2016
                                                                                                                                                                            Giuseppina Radice*

*
Giuseppina Radice già titolare della Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Catania, ama l’ascolto e considera l’insegnamento una responsabilità morale.
Ha curato molti eventi artistici ed ha pubblicato numerosi saggi critici in cataloghi e Riviste. Ha pubblicato con Prova d’Autore nel 2011 i due saggi La Storia dell’arte e il tiro con l’arco ed Erranti ai tempi dell’usabilità e, con la casa Editrice Lupetti nel 2016 il saggio Alchimisti di oggi per un futuro fatto a mano.
Tecnicamente accademica si dichiara antiaccademica per scelta e nella sua attività di storico e di critico applica il metodo “San Tommaso”. Tiene regolarmente “Corsi di alfabetizzazione all’Arte contemporanea” non solo perché è convinta che attraverso l’arte si possa insegnare la vita ma anche perché ha compreso che lo studio dell’arte è in fondo una conquista di libertà nel confronto continuo con la diversità. È spesso fraintesa ma ama fra-intendere.



Prefazione di Giuseppina Radice
powered by Guido Scuderi
Le illustrazioni di
Rossella Granata