Vilhelm Hammershøi
Ovvero: minimalismo rarefatto nordico
Non si può negare che un filo invisibile, ma tenace collega sottotraccia tre grandi pittori appartenenti ad epoche diverse: Vermeer, Hammershøi ed Hopper. Dei tre il primo e l’ultimo sono senz’altro i più conosciuti anche dal grande pubblico, non foss’altro che per le innumerevoli incursioni cinematografiche di cui sono stati oggetto (soprattutto Hopper). Il secondo, quello di cui parliamo, (che discenderebbe dal primo anticipando il secondo) pur avendo ricevuto apprezzabili consensi in vita, appare oggi quasi dimenticato, inghiottito forse dalla fama delle rivoluzionarie Avanguardie. La sua biografia non presenta avvenimenti degni di rilievo, né furori artistici ai quali sembra del tutto estraneo.

Vilhelm Hammershøi (1864-1916) visse per la maggior parte della sua vita a Copenaghen, dove era nato. Viaggiò molto in tutta Europa, ma nessuno degli stili con cui venne a contatto ispirò o ne modificò la pittura, che rimase immutata per tutta la sua carriera artistica, perciò non è possibile iscriverne il linguaggio espressivo in una categoria rigida. Aveva studiato pittura fino dalla tenera età di otto anni, dapprima con maestri privati e poi all’Accademia di Belle Arti di Copenaghen.  Nel 1891 sposò Ida Ilsted, figura presente in moltissimi dipinti. Bisogna arrivare al 1997 per trovare traccia della sua memoria a Parigi, anno in cui si tenne una retrospettiva organizzata dal Museo d’Orsay, seguita da quella presso il Museo Guggenheim di New York.

È stato definito il “poeta del silenzio” ed è uno degli enigmi più misteriosi e affascinanti della storia dell’arte. I suoi interni dall’atmosfera ipnotica e sospesa ne fanno un caso pressoché unico.
Hammershøi è un pittore di interni, case di una sobria borghesia dove prevalgono i toni freddi, come il grigio, il nero, il bianco, al massimo il bruno che fa da contrasto.  Interni spogli, disadorni e immacolati: pochi mobili, pochissimi quadri alle pareti, porte rigorosamente bianche. La luce spesso filtra dalle grandi finestre poste sullo sfondo della scena, ma è una luce anch’essa fredda che spinge a rimanere imprigionati “al di qua” con una tendenza quasi claustrofobica che esclude qualsiasi proiezione verso l’esterno. (
1, 2)  In questo intimismo minimalista vibra una tensione, creata dallo spazio ermeticamente chiuso, un vuoto inquietante, un’assenza, un’angoscia esistenziale, che non si esplica in prospettive deformate o in rappresentazioni caotiche o in colori impazziti come avviene nelle opere espressioniste, ma in una fredda e composta perfezione geometrica e in un ordine meticoloso degli ambienti della casa, così linda, pulita e spoglia da sembrare quasi disabitata. Il soggetto ricorrente dei suoi dipinti è la moglie Ida, una donna vestita in austeri abiti neri, rappresentata quasi sempre di spalle nei pressi di una finestra o di una porta, intenta a cucire o leggere o suonare il piano, nell’apparente attesa di qualcosa o qualcuno. A volta la luce spettrale dona a queste figure femminili un’impressione irreale, come se si trattasse di apparizioni o di allucinazioni. (3, 4, 5)

E non c’è nulla di più inquietante ed enigmatico di una figura vista di schiena, di un volto che non si mostra. Lo sguardo dell’artista osserva una femminilità non esibita, nascosta nell’intimità domestica, del tutto indifferente a quello sguardo. E lo spettatore rimane indeciso a chiedersi se quello è il ritratto di una solitudine e di un disagio o al contrario di una pienezza, la pienezza di una donna perfettamente a suo agio nel proprio mondo ordinato ed equilibrato, fatto di routine domestica, custode gelosa del proprio universo interiore che è reticente a rivelare, enigma vivente per il suo stesso marito pittore, che indugia un po’ impudicamente su quella nuca bianca come nel disperato tentativo di cogliere il mistero inaccessibile di quella donna che gli vive accanto. (6, 7, 8)  Questo elemento ci rimanda in qualche modo a Vermeer, cui abbiamo prima fatto cenno. Anche nei quadri del pittore olandese, con poche e silenziose figure femminili, aleggia un mistero che però si stempera nell’operosità di cui esse sono espressione, frutto dell’adesione ad una religione familiare e ad un’onestà di affetti e di comportamenti che sono deducibili da molti elementi di contorno; quindi per Vermeer la donna racchiude un valore simbolico e sociale chiaro e positivo.
Non così per Hammershøi. Osserviamo uno dei rari casi in cui nel quadro è presente l’autoritratto dell’autore in primo piano: ”Vilhelm Hammershøi, Double portrait of the artist and his wife by Vilhelm Hammershøi”, 1908. (9)

Il pittore si mostra a noi in primo piano, in una tipica posa da autoritratto, mentre la moglie si dà come al solito di spalle. È lontana dal marito, affacciata a una porta che tuttavia si apre sul nulla. Tra i due una lontananza incolmabile. La scena è chiusa, senza via di fuga, per cui lo sguardo dello spettatore è costretto a rimbalzare tra la donna e l’uomo. Anche la scelta di racchiudere la scena in una cornice scura e ovale aumenta il senso di claustrofobia suscitato dell’immagine.
Ancora una volta il vero tema di questo dipinto è il silenzio, la cui pesantezza è accentuata dal fatto che in questo caso sono presenti sulla tela entrambi i membri della coppia, i quali, pur condividendo lo stesso spazio pittorico, sembrano tuttavia appartenere a due differenti dimensioni spazio-temporali. Lo sguardo dello spettatore viene fatto convergere ancora sulla nuca della donna, senza che tuttavia ci sia la possibilità di decifrarne i pensieri. Che quel sostare sulla soglia testimoni un desiderio di evasione, come la Gertrud di Dreyer (il mondo di Gertrud è un “universo bloccato”, anche in questo film la vicenda si svolge quasi interamente negli spazi interni pubblici e privati) o la Nora di Ibsen?”
Non molto cinema o teatro si sono ispirati ad Hammershøi, almeno non tanti quanti ad Hopper, di certo, ma tuttavia è presente una corrente nordica che nelle due arti s’identifica con i due autori appena citati. E che dire di Ranier Maria Rilke che fu un entusiasta estimatore del pittore danese, tanto che alcuni suoi versi si adattano perfettamente ai quadri del Nostro? (10)  Lo stesso definiva lungo e lento il lavoro dell’artista, e aggiungeva: «in qualsiasi momento lo si colga esso mostrerà sempre ciò che è importante e essenziale nell’arte».

Assenza, mistero, silenzio e solitudine. Queste parole ci riportano ad Hopper (1882-1967), la cui affinità con Hammershøi è innegabile. Anche i personaggi dipinti dal pittore americano sembrano essere sospesi in uno stato di attesa permanente di qualcosa che deve avvenire, o forse è già avvenuto, incomunicabili tra loro e quindi profondamente soli, nonostante siano talvolta ritratti in gruppi più numerosi. Ma vediamo le differenze. I colori usati da Hopper sono colori caldi, più o meno scuri, ma spalmati in una vasta gamma di tonalità diverse, e poi il rimando all’esterno, alla società pulsante ed espansiva dell’America fine anni ‘40-‘50 non è semplicemente una cornice, ma l’espressione di una presa di coscienza di quella società; non c’è dialogo esplicito tra i personaggi ritratti ed il mondo di fuori, tuttavia si evince che esso esiste e che forse con questo mondo in evoluzione e con la sua narrazione bisogna fare i conti, anche estraniandosene.

Siamo di fronte ad una spiritualità del tutto diversa: “Quello di Hammershøi è un temperamento malinconico, atrabiliare. Stati fobici e depressivi filtrano dalle sue stanze catacombali, dai suoi paesaggi pietrificati. Danimarca come silenzio, come terra di spoliazione, di assenza. E come immagine perturbante di alterità.  Hammershøi aveva già vissuto le esperienze cruciali per la sua formazione: l’Olanda e ripetutamente Parigi, poi l’Inghilterra e perfino l’Italia (1893), senza che questo potesse scalfire il Dna tutto nordico del suo imprint culturale. Consapevole di una sua identità, algida e boreale, aveva affinato, viaggiando, un linguaggio moderno vincendo la marginalità dell'origine e il rischio di un’acculturazione convulsa.  Da quella riserva di temi e di immagini, incamerate nel viaggio di studio, il pittore danese estrae il quotidiano, gli interni, poi li distilla nei suoi mille filtri di testimone negativo e perdente. E sfilano stanze deserte di oggetti, dipinte di non-colori, sature di disagio e incomunicabilità. Quadri bellissimi e molto speciali: per la purezza, le geometrie, una luce obliqua e claustrale (11) a contrastare, sulla scena d' Europa, la soffocante intimità vittoriana (piante, tappeti e stoffe a metraggio) o il colorato pulviscolo impressionista. Un pittore contro? Un pittore schierato? Sì, come è ovvio, se trasgressione è fabbricare un linguaggio, sostituire alla materialità degli eventi il raffinato racconto del loro non essere” (da Il ghiaccio metafisico del Nord di ANNA OTTANI CAVINA).

Hammershøi non fu l’isolato ritrattista “di spalle” dei suoi tempi; la sua pittura ebbe qualche imitatore o seguace, anche se solo lui può essere considerato il capostipite dell’arte d’interni danese; vale la pena di citare Georg Nicolaj Achen, Carl Holsoe e Caspar David Friedrich di cui riportiamo tre quadri esemplificativi (12, 13, 14). All’attento lettore il compito di trovare somiglianze e differenze, che saltano subito all’occhio: varietà cromatica, morbidezza del tratto e luminosità avvolgente.


Vilhelm Hammershøi
(autoritratto)
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