La cacciata degli ebrei

    Il solo temine “Inquisizione” evoca qualcosa di fosco e sanguinario; un ghigno malefico avvolge tutta questa storia passata in cui su­perstizione ed arbitrio, intolleranza e irragione­volezza si fondono travolgendo il buon senso comune, portandoci alla inevitabile conclusio­ne che altre dovevano essere le motivazioni e le trame occulte che l'avevano generata e sostenu­ta. Non certamente quelle religiose.
    Quest'apparato giuridico-ecclesiastico che tendeva a preservare l’integrità di una dottrina affermandone in maniera inconfutabile l'inviolabilità e giustificando così violenti atti perse­cutori, ha radici molto antiche. Negando reci­samente la libertà di pensiero, non accettava le differenze tra gli esseri viventi e, sentendosi essa stessa unica depositaria della Verità, combatteva con i mezzi più atroci ciò che tale verità metteva in discussione, cioè l’eresia. È opinione comu­ne che l’Inquisizione sia stata un’invenzione di Re Ferdinando il cattolico, tra il XV e il XVI secolo, ma in realtà, se è vero che in questo pe­riodo essa raggiunse l’acme della sua crudeltà, è anche vero che alcuni segni premonitori della sua comparsa erano già presenti nell’Impero ro­mano e nell’Alto Medio Evo. È possibile indivi­duare nell'Arianesimo la prima forma di eresia contro cui lottò l’inquisizione proto cristiana. Fu necessario convocare il Concilio di Nicea (325) per ribadire la duplice natura umana e di­vina del figlio di Dio che tale dottrina metteva in discussione. E come si possono definire le persecuzioni anti-cristiane se non come una forma di inquisizione perpetrata dall’Impero romano per soffocare il - sia pur pacifi­co - dissenso dei primi cristiani? Se quantifichiamo il fenomeno, dando dei numeri, arriviamo alla cifra di quattromila martiri, cifra che è destinata a salire e diver­sificarsi nelle sue nefaste mo­dalità nei vari periodi storici e nei vari paesi in cui fu praticata. Oggi assistiamo agli aberranti comportamenti del Fondamen­talismo islamico, ma dobbiamo tenere presente che la stessa re­ligione islamica nei secoli passati è stata colpita dall’eresia (Scinniti contro Sunniti).
    Il primo, vero, tribunale dell’Inquisizione fu istituito dal Papato nel XI secolo per combatte­re le eresie dei catari e dei valdesi e questa lot­ta continuò anche nei secoli successivi. Quello che la Chiesa rimproverava a queste sette erano dei precetti che potremmo definire compatibili con le filosofie orientali e con il buddismo, cioè la credenza nella reincarnazione delle anime, la massima castità e l’alimentazione esclusivamente vegetariana. Nulla di per sé veramente esecrabile, se non per l’incompatibilità con i costumi della Chiesa romana di cui veniva stigmatizzata la dissolutezza, in contrasto col primitivo messaggio evangelico. In tal senso si può dire che questi eretici prepararono il terre­no a Lutero e al Protestantesimo. Ma la vera e propria nascita della carta dell’Inquisizione si ha nel Medio Evo, con l’emissione dei decretali promulgati dai papi Innocenzo III e Gregorio IX, quest’ultimo acerrimo nemico dell’impera­tore Federico II, da lui scomunicato e definito “bestia apocalittica” per avere occupato arbitra­riamente la Sardegna nel 1239.
    Torniamo a Ferdinando il Cattolico (1452- 1516): con lui la Sicilia, la Sardegna e Napoli en­trarono a far parte dell’Impero spagnolo dal XV a tutto il XVII secolo. Il sovrano aveva provvedu­to, grazie alle sue nozze con Isabella di Castiglia (1469), ad unificare i due regni spagnoli, quello di Castiglia e quello di Aragona, la cui gestione si presentava alquanto com­plicata per l’inestricabile intreccio di moti­vazioni di carattere politico, economico e religio­so. Non ancora investita dall'enorme flusso di oro e d’argento provenienti dall’America (il patroci­nio dell’impresa di Colombo è del 1492) la Spa­gna versava in gravi difficoltà economiche, diffi­coltà e lacune che potevano essere colmate grazie alla confisca degli ingenti patrimoni in mano agli ebrei. Un diffuso sentimento anti-semita serpeg­giava già da tempo nella penisola iberica e aveva dato luogo ai massacri degli ebrei di Castiglia nel 1391; le ingenti ricchezze da essi accumulate e le pratiche religiose a cui erano strettamente legati, li rendeva­no invisi alla popolazione.
    Le loro conversioni al catto­licesimo sembravano soltanto una scelta di comodo, senza una reale adesione alla fede abbracciata. Ferdinando capì che si doveva rafforzare l’azio­ne dell’Inquisizione spagno­la, rendendola indipendente da quella romana e facendone un formidabile strumento di pote­re. A far ciò contribuì Rodrigo Borgia, il futuro papa Alessan­dro VI, che convinse il papa Sisto IV ad emanare una Bolla (1478) che conferiva al sovrano spagnolo piena giurisdizione sull’operato di tale organismo.
    Così nacque l'Inquisizio­ne spagnola, che, esportata in tutti gli altri stati che facevano parte della corona spagnola (Nuovo mondo, Messico, Lima - Perii, Cartagena - Colombia), fece la sua comparsa in Sicilia nel 1487, ma divenne realmente operativa solo dopo il 1500, quando Ferdinando il catto­lico designò come giudici i padri Domenicani e successivamente, nel 1513, i religiosi regolari. La sede designata fu il palazzo dello Steri a Palermo, il “regium Hospicium” che era stata sede privata di Manfredi Chiaramonte. Il Santo Uffizio siciliano dipendeva dal “Coscio de la suprema y General Inquisicìon” con sede a Madrid, composto da sette membri, a capo del quale c’era l’inquisitore generale, nominato dal re e ratificato dal Papa. Il primo inquisitore inviato in Sicilia dall’inquisitore gene­rale Torquemada, fu il domenicano Antonio de la Pena. Fin da subito l’Inquisizione si mise in urto con le autorità locali (viceré) e con il popolo, tan­to da determinare spesso tumulti e la cacciata di qualche rappresentante.
    Il modo di procedere contro l’eretico era il se­guente: “Bastava un semplice sospetto per essere arrestati o dall’autorità statale o dall’Inquisizione; la colpevolezza si poteva stabilire o per confessio­ne o per prove testimoniali. Chiunque poteva te­stimoniare contro l’inquisito, anche gli eretici o gli infamati. Perché il presunto reo fosse condannato erano suffi­cienti due testimonianze a suo carico; per giungere all’accer­tamento della verità era previ­sto qualsiasi mezzo di tortura. La sentenza dell’inquisitore era emessa dopo avere ascoltato una giuria di 40 membri, com­posta di chierici, laici, giureconsulti e religiosi.” (Gaspare Scarcella - L'Inquisizione in Sicilia” - Antares 2001). Nel futuro i metodi non cambieran­no, anzi subiranno dei processi peggiorativi.
    Il colpevole non pentito po­teva essere affidato al braccio secolare che non poteva tor­turarlo e, a sua volta, poteva consegnarlo ad una corte laica perché fosse arso vivo. Se la corte si rifiutava di eseguire tale condanna i giu­dici componenti venivano scomunicati. Il con­dannato pentito per tempo poteva veder tramuta­ta la sua condanna in carcere a vita; se si pentiva dinnanzi al rogo poteva ricevere i conforti reli­giosi e nient’altro. I testimoni non veritieri erano passibili di condanne penali o potevano espiare la loro colpa recandosi in Terrasanta, a Roma, o a Santiago di Compostella. In ogni modo la san­zione si esauriva soltanto dopo che il bugiardo fosse stato pubblicamente fustigato a sangue in un qualsiasi giorno di festa.
    Ma vediamo in che modo il potere dell’Inquisizione trovava appiglio e sostentamento nella società siciliana: “Al fine di eludere la rigorosa giurisdizione regia e di godere del foro privile­giato nei contenziosi civili e nei processi pena­li, a metà del ’500, numerosi baroni e mercanti entrarono a far parte, in qualità di ufficiali e di “familiari”, del Tribunale isolano. Venne così a costituirsi, con reciproci vantaggi, una for­te alleanza tra Sant’Uffìzio, baronaggio e ceti mercantili, e, sino ai primi decenni del ’700, furono molto frequenti e violenti i conflitti di competenza giurisdizionale tra magistrati e regi inquisitori” (da Il Sant’Uffizio in Sicilia, di Giuseppe e Salvo Musumeci su “Gazzettino” di Giarre, 29 maggio 2010).
    L’azione purificatrice degli inquisitori fu volta prevalentemente contro le co­munità ebraiche, molto fiorenti in quel periodo; quando, nel 1492 fu decretata l’espulsione sistematica degli ebrei, il clima d’intolleranza era stato già am­piamente preparato ed incentivato da­gli inquisitori dando luogo a parecchi episodi sanguinosi in varie parti della Non possiamo non citare l’eccidio avvenuto nella contea di Modica il 15 agosto del 1474, allorché vennero tru­cidati più 300 ebrei, non esclusi bambi­ni, donne e vecchi, da una folla infero­cita, aizzata e sobillata dalle veementi prediche anti-giudaiche del frate do­menicano Giovanni da Pistoia.
    “Il numero dei condannati al rogo in Sicilia fu altissimo: in quei decenni furono celebrati circa 1850 processi ed accesi 450 roghi” (da “Il sant'Uffìzio in Sicilia”, op.cit)
    Scelgo una voce a caso dal registro trascritto da Vito e Giuseppe La Mantia. “Origini e vicen­de dell’Inquisizione in Sicilia” Sellerio, Palermo 1977. Reca il numero 213: “Catania. Gabriele Tedesco, moro battezzato, schiavo del Prior de Barletta Fr.d. [frate domenicano] Octavio Giorni Gran Croce, naturale d’Algeri, abiurò domenica 16 ottobre 1630 nell’Atto celebrato nel piano della Cattedrale, poi ricaduto e pentito fu ammesso la seconda volta a riconciliazione nella Chiesa di S. Domenico a 3 marzo 1633, poi ricadendo ed essendo ostinato fu rilassato in persona [rilasciato al braccio secolare, cioè bru­ciato vivo] nell’Atto celebrato nella piazza della Chiesa Maggiore a 9 settembre 1640”
    Da questa voce, estratta a caso da un elenco lunghissimo, apprendiamo che un priore dome­nicano poteva detenere schiavi al proprio ser­vizio. Che uno di questi, ribattezzato Gabriele Tedesco, si ostinava a rimanere fedele alla sua religione musulmana. Costretto due volte all’a­biura, la terza volta fu consegnato dagli inqui­sitori alle autorità, che lo legarono su fasci di legna in una piazza, tanto perché la folla potes­se assistere, e gli inflissero un’agonia tra le più atroci che si possano concepire.
    Il declino del potere dell’Inquisizione in Sicilia cominciò molto lentamente a partire dal 1592 quando il viceré Duca d’Alba ottenne da Filip­po Il che tutti gli arruolati nella congregazione de' famigliari del Sant'Uffizio (nobili, cavalieri generali e altri aristocratici siciliani) perdesse­ro i privilegi economici e le prerogative fino ad allora concessi, che gravavano pesantemente sull’amministrazione dello stato. I commissari del sant’Uffizio e coloro che vi si affiliavano come famigliari erano inoltre dispensati dalle leggi restrittive sul porto d’armi e godevano di immunità dalla giustizia regia. Con decreto regio del 6 marzo 1782, dopo oltre 500 anni dall’in­troduzione, Ferdinando III di Sicilia disponeva l’abolizione dell’Inquisizione nell’isola.
   

La caccia alle streghe

    La strega che si recava al sabba poteva avere la sorpresa di trovarvi anche i vicini di casa e gli amici che non aveva mai sospettato di pratiche stregonesche. Vi erano poi decine di diavoli, loro amanti, con i quali erano vincolati dal patto infernale; sopra tutti l'arrogante maestro delle cerimonie, Satana in persona, che a volte si manifestava sotto le sembianze di un uomo gigantesco, bruno e barbuto, più spesso sotto quelle di un caprone puzzolente, e a volte di un grande rospo. I presenti riconoscevano il loro padrone e lo veneravano danzando intorno a lui al suono di una macabra musica eseguita con strani strumenti: teschi di cavalli, tronchi di querce, ossa umane...
    In segno di omaggio lo baciavano sotto la coda se era un caprone, sulle labbra se era un rospo. Dopo di che, a un suo comando, si scatenavano in orge sessuali o banchettavano con cibi che variavano secondo la provenienza nazionale, ma che avevano la caratteristica comune di essere completamente insapori, perché, per qualche arcana ragione demonologica, il sale non era mai ammesso. (...) Si potevano avere anche rapporti sessuali con il diavolo che si manifestava alle streghe come incubus e agli stregoni come succubus dimostrando in ciò di aborrire i vizi contro natura! Come amante il diavolo era “di una freddezza glaciale” al tatto, il suo amplesso non procurava piacere alcuno e al suo equipaggiamento sessuale mancavano alcuni strumenti, ma le sue attenzioni erano di formidabile, persino opprimente concretezza...” (H. R. Trevor - Roper - La caccia alle streghe in Europa nel ’500 e nel ’600).
    Racconti come questi ne circolavano a centinaia, con le opportune varianti secondo il luogo di provenienza, soprattutto nell’Europa del nord. Racconti che oggi ci fanno sorridere, al massimo ci fanno pensare alla festa di Halloween di derivazione anglo-sassone che si sta poco a poco diffondendo nel nostro paese, ma nell’epoca presa in esame non solo venivano credute, ma scatenarono una delle più formidabili controffensive inquisitorie che la storia abbia mai conosciuto, la caccia alle streghe.
    Comunemente associamo la stregoneria ed analoghe credenze al Medio Evo, all’età di mezzo, visto come periodo di oscurantismo e di barbarie, di regresso e di superstizione. Non è così: i secoli che videro una maggiore recrudescenza dei roghi e delle persecuzioni alle streghe furono invece il ’500 ed il ’600. Ci si potrebbe chiedere come mai queste due età di innegabile progresso potessero consentire tali superstiziose atrocità. Le risposte sono molteplici, come complesso è il quadro di riferimento ed il contesto storico in cui si attuarono. Sopra ogni altra sta la considerazione che questo fenomeno non si sarebbe verificato senza l’appoggio ed il consenso del popolo: nessuna autorità inquisitoria avrebbe potuto agire da sola se l’opinione comune non avesse visto nelle streghe (come negli ebrei) un elemento estraneo alla comunità e per questo minaccioso: il diverso, il capro espiatorio da isolare e perseguitare!
    Un’altra risposta è riferita alla tortura: molte confessioni venivano estorte con mezzi violenti, ma è anche vero che molte altre venivano date spontaneamente, da soggetti psicologicamente deboli o malati di isteria sessuale; in altre parole se le estasi di santa Teresa d’Avila potevano essere guardate come una forma di misticismo benefico che portava alla santità, altre forme di esaltazione analoga venivano bollate come stregoneria perché il punto di riferimento era la congiunzione con Satana.
Anche il Luteranesimo, dove si diffuse, rappresentò un formidabile strumento di repressione della stregoneria.
    A preparare il clima culturale della caccia alle streghe fu senza dubbio II Malleus Maleficarum (Hexenhammer), in latino maglio delle streghe, un famoso testo medievale in tre volumi sulla stregoneria, scritto nel 1486 dai domenicani e inquisitori della Chiesa Cattolica Heinrich Kramer e Jacob Sprenger e pubblicato in Germania nel 1487, alla fine del Medio Evo. Il suo scopo principale era di istruire i giudici su come identificare, interrogare e imprigionare le streghe.
    L’inquisizione in Sicilia si diffuse nei secoli XV, XVI e XVII (come abbiamo già ricordato nel precedente articolo) ed ebbe un’impronta fortemente antisemita, contrastando altresì le eresie che erano state condannate dal Concilio di Trento (ad esempio il quietismo); analogamente si occupò anche delle streghe e dei malefìci da esse compiuti, ma purtroppo molti documenti dei processi e delle condanne sono andati in fumo nell’incendio dello Steri di Palermo, così dobbiamo fare riferimento a fonti spagnole. I foschi e tenebrosi racconti dei sabba nordici qui in Sicilia assumono contorni più lievi, quasi da favola. Facciamo qualche esempio.
    Alcamo, sec. XVII: la locanda della famiglia Rejna è in festa perché padron Francesco si è sposato da poco con la giovane Joana proveniente da Palermo. La ragazza è timida, riservata e sente su di sé gli occhi dei parenti alcamesi che non sempre sono benevoli, come la suocera; inoltre deve far fronte ad una serie di incombenze domestiche inerenti alla conduzione della locanda: spazzare, riordinare, tenere pulita la biancheria da letto e da tavola, fare il bucato al fiume.
    Tra tutte le attività, questa è la più gradita a Joanna, perché le consente di conoscere e fare amicizia con altre donne, di dialogare con loro. Così stringe rapporti più stretti con Caterina Calandrino, Bitta la Russa e Vincenza la Esquarchia, appartenenti alla cerchia delle donne di fora, cioè delle streghe. Questo legame più confidenziale suscita le gelosie delle altre donne alcamesi che invidiano Joanna per la sua posizione sociale. Le tre “amiche” raccontano cosa fanno: sono guaritrici, curano i mali del corpo e dello spirito, ricongiungono amori, fanno ritrovare cose perdute... Dicono di lasciare, in alcuni giorni della settimana, il loro corpo nel letto e di “andare con lo spirito, insieme ad altre donne di fora, cioè le fate, librandosi nell’aria, talvolta a cavallo di un caprone o di un basto­ne, visitando giardini incantati dove si canta, si balla, si banchetta, nel lusso e nell’abbondanza, vestendo abiti sontuosi prestati dalle fate. Le tre amiche parlano delle fate come di esseri spiri­tuali, guidate da una maestra, di nome Donna Inguanta, e da un maestro chiamato re Cozo.”  (Joana Rejna e le streghe di Alcamo di Maria Sofia Messana, ne “Le Siciliane”).
    Questi racconti affascinano Joana che decide di andare con loro al prossimo incontro not­turno. Le viene dato un unguento contenente probabilmente sostanze allucinogene, estrat­te dalle piante che si raccolgono nella notte di san Giovanni. Passano gli anni e la locandiera diviene essa stessa guari­trice e cercatrice di tesori e continua a compiere in sogno i voli nottur­ni. Tutto ciò non sfugge alle altre alcamesi, dieci delle quali denunciano la faccenda recandosi al Sant’Uffizio di Palermo, facendosi forti del fatto che il loro nome non ver­rà mai reso pubblico.
L’8 giugno del 1621 gli inquisitori Llanes e Matienzo iscrivono il nome della locandiera nel re­gistro degli indagati, la imprigionano, la interro­gano. Ma Joana sa bene chi sono le autrici delle delazioni a suo carico e le denuncia a sua volta per inimicizia, e, per legge, il processo viene annullato per inaffidabilità dei denunzianti. Il 3 novembre del 1621 a Palermo, nella sala del Segreto dello Steri, viene assolta e, dopo avere ascoltato una messa insieme agli in­quisitori, ed un loro severo monito a rigar dritto, viene liberata. Non sempre però vicende simili a questa hanno esito positivo.
    Stavolta siamo a Scicli, nella Sicilia orientale. Il 18 agosto dell’anno 1615 viene arrestata una donna non più giovane: tale Margarita, accusata di avere guarito alcuni infermi somministrando pozioni a base di erbe. La sventurata è dunque colpevole di “hechizeria” (stregoneria). Inizia così, stretto nella tenace morsa del processo inquisitorio, il calvario di questa donna “naturai de Xicli”. Ad accusarla sono alcuni “testigos” che - nel segreto dell’istruttoria - “testifican” di aver visto “Margarita” guarire molte persone, alcune delle quali affetti da “puestoles en la mano” pronunziando sacre ora­zioni. La donna, più volte interrogata, nega ripe­tutamente. Strappata dalla sua Scicli e deportata a Palermo, vede sempre più lontana la speranza di poter tornare al luogo natio. Gli inquisitori chiudo­no la fase processuale condannando “Margarita” a “servire murada” (una sorta di arresti domiciliari) “por ciuco anos” presso un nosocomio panormita.
La prassi inquisitoriale è rispettata. Per “Marga­rita” la condanna è tri­plice. Per il Tribuna­le dell’Inquisizione siciliana di rito spa­gnolo lei è una stre­ga. Per la giustizia or­dinaria quella donna, a seguito della sua “attività” di “cura­trice”, è colpevole di esercizio abusivo della professione me­dica. Per il Tribunale ecclesiastico si tratta di un’incallita eretica, giacché peccano tutti quelli che credono “... alli sogni et alli incan­ti, alli indovini, a stre­gane...” A Margarita, resasi colpevole di aver alleviato le sofferenze del popolino, non resta al­tro che chiedere alle sue compagne di sventura: “...chi dite che io sia? Strega, eretica o erbori­sta?” (la notizia è riportata da Giuseppe Nativo che a sua volta ha attinto ai carteggi mandati dal­la Sicilia alla sede centrale di Madrid).
Abbiamo riportato due episodi che testimonia­no due esiti diversi ed opposti di questa terribile persecuzione. La scarsità delle fonti non ci per­mette di aggiungere altro, se non, naturalmente, il sentimento di sdegno che ci accompagna.





powered by Guido Scuderi
L'inquisizione in Sicilia
Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe), questo libro fu scritto da due monaci inquisitori domenicani, Heinrich Kramer e Jacob Sprenget; nel testo sostenevano di avere ricevuto po­teri speciali per processare le streghe.
1997 by Francesco Cipollini
Esempio di tortura durante l'inquisizione